Festivaletteratura. Impagliazzo e Spadaro: forza e fragilità della pace
Impagliazzo, Grieco e Spadaro
Dall ʼ inviato a Mantova Alla guerra mondiale a pezzi che caratterizza molte parti del mondo, la risposta di pace deve basarsi su vicinanza, intelligenza delle situazioni, misericordia, visione spirituale e preghiera. Tutte dimensioni evocate ieri mattina a Mantova nell’incontro sulla “Diplomazia della pace” che ha visto protagonisti il presidente della Comunità di Sant’Egidio, Marco Impagliazzo, e il direttore de La Civiltà Cattolica, il gesuita Antonio Spadaro, moderati dal giornalista Marco Grieco. All’evento, realizzato dal Festival in collaborazione con la diocesi, era presente anche il vescovo di Mantova, Gianmarco Busca. Al centro la situazione in Ucraina, ma non solo. L’omicidio della suora comboniana Maria De Coppi in Mozambico ha dato lo spunto per allargare lo sguardo ai vari scenari di guerra. E a Impagliazzo per tornare a quel 1992 in cui il dialogo e il riconoscimento reciproco tra le parti in conflitto riuscirono a realizzare la pace. Pace che è sempre fragile, hanno ricordato i due interlocutori. Ma delle soluzioni si posso tentare con quell’artigianato di pace che papa Francesco ha proposto. Padre Spadaro ha ricordato come questo significa «toccare da vicino» le situazioni per cercare di realizzare quel «mondo alternativo, quell’architettura nei rapporti interpersonali e anche internazionali ». Certo la conflittualità fa parte della natura umana e anche un ascoltato uomo di pace come il Papa sa che la pace è instabile. «Non è un astratto pacifista, un ideologo della pace», vuole piuttosto vedere le ragioni per cui si arriva alla guerra. Atteggiamento, dunque, che ha assunto anche per il conflitto ucraino. Con una visione spirituale che attinge alla misericordia, secondo la quale «nulla può essere dato per perso nei rapporti tra persone, ma anche tra Stati ». Cosa che non viene capita, nonostante la condanna ripetuta e dura dell’invasione russa. Per alcuni il Papa dovrebbe essere il «cappellano di una parte e questo è problematico», ragiona il gesuita. Perché il rischio è che le religioni diventino «l’espressione della politica dello Stato» come appare, esemplifica, dalla pressione anglicana per espellere gli ortodossi russi dal Consiglio ecumenico delle Chiese (Cec). Invece Francesco ha sempre rifiutato questo per condurre un lavoro “sartoriale” con entrambe le parti e i rispettivi leader religiosi, chiedendo di incontrare il patriarca russo Kyrill e andare a Mosca e Kiev. Cerca, insomma, di capire le ragioni di tutti e di non demonizzare nemmeno l’oppressore, mantenendo ferma come detto la condanna della dinamiche che portano alla guerra. C’è invece qualcuno che «non vuole fare tanto lo sforzo di riconciliare, ma vuole espellere la Russia dall’Europa», contraddicendo la visione di Giovanni Paolo II di un’Europa dall’Atlantico agli Urali, che è anche quella di Francesco. Così facendo «si spacca i mondo» e, «eliminando e umiliando la Russia, non si farebbe altro che creare i presupposti di una nuova guerra» come dopo la Prima guerra mondiale. Impagliazzo, che ha sottolineato la straordinarietà degli incontri diretti del Papa con gli ambasciatori russo e ucraino, ha dapprima invitato a una «immaginazione profetica che oggi manca, schacciandoci sul presente e non facendoci vedere il mondo come lo vorrebbe il Signore». La guerra di oggi presenta, poi, due problemi: «È diventata un mestiere. In Kivu ci sono ragazzi che al mattino frequentano l’Università e al pomeriggio vanno nella foreste a combattere». La guerra, poi, ha preso la forza di farci pensare «che non esista che lei, che la pace non sia possibile». Un altro fattore che conta è quello dell’immedesimazione. I conflitti nell’Europa contano più di altri lontani. Ma per tutti vale, dovrebbe valere, la solidarietà. Impagliazzo ha sottolineato l’importanza dei corridoi umanitari per sottrarre chi fugge dai mercanti di uomini. Una soluzione concreta, dunque. «Noi cristiani abbiamo un problema con le armi ma possiamo soccorrere gli ucraini con gli aiuti umanitari». E dei 60mila ucraini accolti in Italia quasi tutti sono nelle famiglie, non in strutture statali, «chiamati magari dalle parenti badanti che lavorano da noi e ci hanno chiesto aiuto».