Il caldo, alla cava, era insopportabile: la pietra candida rifletteva, come in un gigantesco specchio ustorio, i raggi del sole estivo. Esausti e sudati gli uomini si davano da fare per separare i blocchi di marmo. Verso valle, l’acqua piovana aveva colmato una cava abbandonata. Il signor Greppi, che si vantava di esser un grande pescatore, aveva riempito il laghetto artificiale di avanotti che, complice forse il calcare, erano cresciuti a dismisura. Il mare non era lontano, ma che una famiglia di gabbiani avesse deciso di nidificare lassù era singolare. O forse era grazie al laghetto del signor Greppi e alle sua carpe giganti. Dario Pisani, da qualche tempo capo turno alla cava, era un giovanotto volenteroso e attento: la vita del cavatore era difficile e pericolosa, ma lui lavorava con passione, convinto che, da quel marmo candido, un novello Michelangelo avrebbe prima o poi scolpito un pezzo della Storia dell’Umanità. «La vena si va esaurendo, ragazzo mio», gli disse Greppi quella mattina. «E io sono troppo vecchio per cercare nuovi filoni. Mi hanno fatto un’offerta per la concessione e sarei tentato di…». «Mi dispiace, signor Greppi, se dice questo. Ho sempre pensato che questo lavoro riuscisse a regalare sensazioni simili a quelle dei cercatori d’oro: individuare una vena di buon marmo può far diventare ricchi all’improvviso». «È vero, Dario. Proprio di una sorta di febbre dell’oro si tratta. Pensa solo alla leggenda della cava di portoro». «La cava di portoro? Ma non si tratta di una varietà preziosissima e ormai introvabile?», disse Dario sgranando gli occhi. «È vero», gli fece eco Greppi. «Il portoro era conosciuto già ai tempi degli Etruschi e la zona di estrazione era limitata al vicino golfo della Spezia: vennero scoperti dei giacimenti nelle isole e sui quei monti laggiù, al confine tra Liguria e Toscana».Così dicendo Greppi indicò un rilievo non troppo distante dalle Apuane. «So che il portoro», aggiunse Dario. «È considerato tra i più pregiati al mondo. Si dice che gli antichi fossero convinti che le striature gialle sulla pietra nera altro non fossero che venature d’oro…» «È vero, ma si tratta solo di “dolomitizzazione” delle sostanze organiche avvenuta in centinaia di milioni d’anni. La leggenda dice che un giovane, entrando in una grotta, abbia scoperto un giacimento di portoro, e che mai abbia rivelato la sua ubicazione… Ma, dimmi, come sta tua moglie?» «Non si tratta di una gravidanza facile. Speriamo bene», rispose il giovane. «Chi sarebbero questi imprenditori interessati a rilevare la concessione?» «Pino Sicora e i suoi». «Ma… ma signor Greppi… sapete bene che cosa dicono di quella gente… stanno investendo nelle cave i denari della mafia e non guardano in faccia a nessuno…» «Poche ciance e rimettiti al lavoro: siamo già in ritardo con le consegne », tagliò corto Greppi. Quella notte Dario non chiuse occhio o quasi.«La tua reazione mi ha fatto pensare, Dario», gli disse il datore di lavoro alcuni giorni più tardi. «Hai ragione: non è bello concludere la propria carriera regalandosi a certa gente. Ho volturato la concessione in tuo favore…con la tua perseveranza ci riuscirai…».«La cosa mi lusinga… ma i Sicora… », disse Dario con una vena di preoccupazione nella voce. «Ho già parlato con loro. Hanno vagheggiato qualche minaccia, ma penso che alla fine non si sporcheranno le mani per un vecchio più 'esaurito' della vena di marmo della sua cava». Così dicendo Greppi salì sull’auto e salutò Dario con un gesto della mano. La strada per abbandonare la cava era impervia e pericolosa e Greppi l’avrebbe percorsa con calma. Dario rimase con lo sguardo verso il cielo terso, il gabbiano non cessava di emettere suoni gutturali in direzione di un esemplare più giovane, che stava compiendo incerte planate sfiorando l’acqua del laghetto artificiale. «Gli sta insegnando a volare», disse un collega. «Che hai detto?», chiese Dario soprappensiero. «Il gabbiano sta insegnando a volare a suo figlio». Greppi teneva il pedale del freno premuto. Stava affrontando il terzo dell’interminabile serie di tornanti, quando il piede spinse sino a fine corsa: l’impianto frenante aveva smesso di funzionare e l’auto, inarrestabile, incominciò a prendere sempre più velocità lungo la discesa. Dario era appena uscito dall’obitorio: era toccato a lui il riconoscimento del povero Greppi. Stava avviandosi verso casa, quando uno sconosciuto gli si avvicinò: «Quella concessione ci interessa. Non ti azzardare a entrare in competizione con noi. Hai visto quello che è successo a Greppi?» Detto questo l’uomo si allontanò velocemente. Cinque giorni più tardi Carlo, così Dario e sua moglie l’avevano chiamato, decise che fosse tempo per venire al mondo.Nei due anni che seguirono alla nascita di Carlo, i Sicora avevano raggiunto il monopolio pressoché totale nella concessioni su quel versante delle Apuane: per rilevarle pagavano i concorrenti in contanti, spesso a valori maggiorati rispetto al mercato. E, se non fossero state sufficienti le valigie piene di soldi, disponevano di mezzi di convincimento ancor più persuasivi. Si diceva che Puccio Sicora fosse la longa manus che reinvestiva i proventi illeciti di Cosa Nostra in attività pulite. E, Sicora ne era convinto, lo sfruttamento delle vecchie concessioni sarebbe prima o poi diventato premiante. Unico neo nella sua campagna di acquisizioni era la concessione che il vecchio Greppi aveva volturato a Dario poche ore prima di sfracellarsi nel burrone. E Dario pareva non avere alcuna intenzione di cedere alle lusinghe o alle minacce di Cosa Nostra. «Quello è un impertinente!», esclamò Sicora a un losco individuo che gli stava davanti. «La sua cava è baricentrica rispetto a quelle in nostro possesso: se dobbiamo continuare ad aggirarla per portare a valle i blocchi di marmo, i nostri costi di trasporto decuplicano…» «Ci manca solo quello, Puccio: in Sicilia si aspettano risultati dal tuo operato», gli rispose l’altro. «Mica posso tornare giù e dire che siamo al palo per un cavatore “impertinente”… e tu sai che quando giù diventano impazienti…» Il medico scosse il capo, confermando le paure che loro stessi fuggivano: Carlo era affetto da autismo.Se ne erano accorti appena il bambino aveva dovuto rapportarsi con gli altri e iniziare a parlare. Adesso il piccolo avrebbe avuto bisogno di cure costose e di assistenza.Dario uscì dall’ospedale stringendo la mano a sua moglie. Aveva gli occhi gonfi e arrossati. Rispose distrattamente al telefono, ma la voce dall’altro capo della linea lo riscosse: un ordigno aveva fatto saltare per aria le preziose macchine da cava della sua impresa. Il suo sogno era finito. Carlo seguiva passo dopo passo il padre. Non parlava, ma sembrava capire ogni cosa. Nelle asperità della vita non esiste un valore assoluto nella scala delle soddisfazioni: queste si adattano al nostro vivere. E Dario godeva delle soddisfazioni che il lento miglioramento di Carlo riusciva a fargli provare. Solo che i suoi risparmi erano orra mai agli sgoccioli e il lavoro che aveva trovato non gli avrebbe consentito di seguire il bambino come necessario.Dario indicò le Apuane poco distanti dalla sommità del monte Carpione sul quale si trovavano. Il bambino seguì con lo sguardo il punto indicato dal dito del padre. «Vedi laggiù, Carlo?», disse Dario. «Lì ci sono le cave. La ricerca del marmo più prezioso è simile a quella dell’oro. Riesce a rendere febbricitanti gli uomini come un tesoro. Pensa che pochi giorni fa un certo Puccio Sicora è stato rinvenuto cadavere, dopo che tutte le concessioni minerarie di cui aveva fatto incetta erano risultate esaurite. Si dice che sia stato un regolamento di conti nella mafia. Gli sta bene: sono convinto l’incidente del povero signor Greppi e l’attentato alla mia cava abbiano Sicora come mandante».Carlo rimaneva immobile, lo sguardo perso verso le vette all’orizzonte, sino a che un vecchio gabbiano prese a volteggiare sulle loro teste, per andarsi fermare nei pressi di un anfratto. Carlo prese a correre verso il gabbiano, Dario lo seguì preoccupato. Quando raggiunse il piccolo si accorse che l’anfratto nascondeva l’ingresso di una grotta. Dario ci infilò la testa e illuminò le pareti con una torcia. A pochi metri dall’ingresso il marmo nero, striato di venature dorate, brillava alla luce della lampada.«Portoro!», esclamò Dario. «La cava dell’antica leggenda».Il gabbiano compì un paio di cerchi sulla sua testa, garrì e poi si allontanò in direzione delle Apuane. Dario accarezzò la guancia al piccolo. Carlo lo guardò e, sforzandosi, pronunciò la prima parola della sua vita: «Papà!», disse il bambino. Dario non smise di accarezzargli la guancia piegata ora in un sorriso soddisfatto.«T’insegnerò a volare!», disse rivolto al figlio, mentre lacrime di felicità gli rigavano il volto.