Agorà

Riletture. Il vero Mameli: un inno di pace e di unione nel segno della Provvidenza

Roberto Carnero giovedì 12 dicembre 2024

Goffredo Mameli (1827-1849)

Il rapporto degli italiani con il proprio inno nazionale non è dei più semplici. Destò scalpore un episodio del 2008, quando Umberto Bossi, allora leader della Lega Nord, a Padova, dal palco di un comizio, rivolse all’inno il gesto osceno del cosiddetto “dito medio”. Spiegando: « Non dobbiamo più essere schiavi di Roma. L’inno dice che l’Italia è schiava di Roma: toh! Contro la canaglia centralista abbiamo 15 milioni di uomini». Peccato che l’inno non dica affatto che l’Italia è schiava di Roma! Nel testo (« Dov’è la Vittoria? / Le porga la chioma; / ché schiava di Roma / Iddio la creò»), a essere schiava di Roma è la Vittoria, non l’Italia: la dea Vittoria, che Dio volle fosse schiava dell’antica Roma, dominatrice del mondo allora conosciuto, deve ora rendere omaggio alla nuova Italia porgendole i capelli per farseli tagliare, in gesto di sottomissione (nel mondo latino le schiave infatti erano tenute a portare i capelli corti). La poco onorevole performance bossiana viene rievocata, insieme a tanti altri momenti che hanno segnato le alterne fortune e sfortune del nostro inno nazionale, da Massimo Castoldi in un gustoso saggio dal titolo L’Italia s’è desta. L’inno di Mameli: un canto di pace (Donzelli, pagine 236, euro 18,00). Con sicura competenza filologica e storico-letteraria, l’autore ripercorre la nascita dell’inno, le sue fonti, i significati delle espressioni, ma anche i modi della sua ricezione e manipolazione (dalla distorsione fascista alla riscoperta antifascista durante la Resistenza). Scelto dall’Italia repubblicana in sostituzione della marcia reale sabauda (che era stato l’inno del Regno dopo l’Unità), era stato composto nel 1847 da Goffredo Mameli, genovese, poeta e patriota mazziniano, morto nel 1849 a soli 22 anni per le conseguenze di una ferita ricevuta combattendo con Garibaldi alla difesa della Repubblica romana. I versi, com’è noto, furono presto musicati da Michele Novaro. Non c’è dubbio che si tratti di un testo poco noto agli stessi italiani: basta vedere come lo cantano certi sportivi in occasione delle competizioni internazionali («è come quando si cantava la Messa in latino e nessuno sapeva cosa voleva dire», disse una volta Dario Fo). D’altra parte la struttura e il lessico non sono immediatamente perspicui a un parlante di oggi: le inversioni sintattiche e il lessico tipici della poesia ottocentesca rendono l’inno di difficile comprensione. Le parole, inoltre, sono dense di riferimenti storici, che, come fa molto bene Castoldi, vanno puntualmente spiegati: «l’elmo di Scipio» (Publio Cornelio Scipione detto l’Africano, nel 202 vincitore su Annibale), «Legnano» (l’omonima battaglia, che vide nel 1176 la vittoria della Lega Lombarda su Federico Barbarossa), « Ferruccio» (il capitano di ventura Francesco Ferrucci, che nel 1530 trovò la morte difendendo Firenze dalle truppe dell’imperatore Carlo V), « Balilla» (soprannome di Giambattista Perasso, il ragazzo che nel 1746, lanciando una pietra contro un drappello di soldati, diede avvio alla rivolta di Genova contro gli Asburgo, alleati ai Savoia; richiamandosi a questo episodio, il fascismo chiamerà “balilla” i ragazzi inquadrati nelle istituzioni militari del regime), «i Vespri» (ovvero i Vespri siciliani, la sommossa antifrancese del 1282), «il sangue polacco» e il «cosacco» (che alludono alla repressione dei polacchi in Galizia da parte degli Austriaci e dei Russi, avvenuta nel 1846; nel Settecento, infatti, Austriaci e Russi si erano spartiti la Polonia d’intesa con la Prussia). Nelle intenzioni del poeta risorgimentale Mameli, tutti questi esempi tratti dalla Storia dovrebbero incitare gli italiani alla riscossa. In altre parti dell’inno è infatti presente il lamento sulle condizioni di sofferenza morale della nazione, tradizionalmente afflitta dalla mancata coesione: « Noi siamo da secoli / calpesti, derisi, / perché non siamo popolo / perché siam divisi». Per ottenere il risultato di un’autentica unità, l’autore prospetta un umanitarismo venato di cristianesimo: «Uniamoci, amiamoci; / l’unione e l’amore / rivelano ai popoli / le vie del Signore». L’inno, insomma, è un appello all’unione nazionale all’insegna della Provvidenza, in linea con il pensiero cattolico del tempo (Manzoni, Gioberti, Rosmini) e non contiene incitamenti alla guerra offensiva, ma solo la previsione di una guerra difensiva, una guerra “giusta”. Per questo Castoldi sottolinea che si tratta di un «canto di pace»: un valore del quale Dio sa quanto oggi abbiamo bisogno.