Agorà

DIBATTITI. Il vero discepolo si mostra nella carità

Piero Coda giovedì 13 ottobre 2011
Conosciamo tutti l’inno alla carità che l’apostolo Paolo tesse, con la consueta pregnanza e incisività, nel capitolo 13 della prima lettera ai Corinzi. L’agape, rimarca, è excellentior via: la via che tutte le altre sopravanza. Tanto che avere la pienezza della fede, il dono della profezia, la ricchezza della scienza, il distacco dai propri beni a favore degli altri, il più alto spirito di sacrificio, ma non avere l’agape, significa «essere nulla». E cioè, di fatto, non essere attivamente coinvolti nell’evento definitivo di salvezza che si è realizzato, da Dio per noi, in Cristo Gesù. Una così vertiginosa celebrazione del primato dell’agape non è soltanto espressione del genere letterario encomiastico di cui Paolo in questo caso fa un uso magistrale. Basti rileggere con attenzione l’intero epistolario paolino, che pure così radicalmente punta sulla centralità della fede, per rendersi conto che «l’agape è la cifra compendiosa di tutto il mistero cristiano, a partire dai suoi più reconditi fondamenti teologici fino alle sue più tangibili fruttificazioni etiche». Così scrive Romano Penna. Occorre dunque liberarsi dal laccio insidioso di una contrapposizione artificiosa, quando non banale e impertinente, tra fede e carità, che porti a discettare in astratto su quale delle due sia la prima, senza fissare invece l’attenzione sulla vera posta che è in gioco nella sequela di Gesù Cristo. La testa al toro, in verità, l’aveva già tagliata, alla fine degli anni ’50, un esegeta di vaglia come Ceslas Spicq, nel suo magistrale e ponderoso saggio su L’agape nel Nuovo Testamento. In esso, tra l’altro, egli illustra il significato di un versetto cruciale della prima lettera di Giovanni, che nella sostanza ripropone la lezione di Paolo: «Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’agape che Dio ha per noi. Dio è agape; chi sta nell’agape dimora in Dio e Dio dimora in lui» (4,16). «I teologi – commenta Spicq – hanno ritenuto soprattutto le definizioni della fede di Eb 11,1 («La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono») e 6 («Chi si accosta a Dio deve credere che egli esiste e che egli ricompensa coloro che lo cercano»); ma 1Gv 4,16 precisa di quale Dio si tratti, il Dio di Gesù Cristo che è amore e si rivela, nonché la maniera di legarsi a lui vitalmente». Con questa precisazione, Spicq richiama il dato basilare e irrinunciabile della fede cristiana: e cioè che l’agape che Cristo ci manifesta e ci dona nello Spirito Santo non specifica soltanto l’oggetto proprio della fede, ma insieme anche l’atto vitale con cui l’uomo è chiamato a rispondere al dono di Dio. L’oggetto della fede cristiana, infatti, è Dio in quanto si è rivelato agape in Gesù Cristo; e l’atto di fede del discepolo, di conseguenza, ha da esprimersi esso stesso in agape di risposta verso Dio che si rivela e, in Lui, verso i fratelli dei quali occorre mettersi al servizio. Dunque, se parliamo di fede, nel suo significato cristiano, e di amore, anche qui nel senso cristiano del termine (agape), allora bisogna concludere che esse si coappartengono. Di modo che l’una, in verità e pienezza, non si può dare senza l’altra. E questo perché la fede è riconoscere e credere che Dio è agape; e la carità è vivere di conseguenza, testimoniando sempre e in ogni caso, verso i fratelli, l’agape di cui Gesù ci ha mostrato la verità e la misura. Di questa straordinaria e fecondissima indissolubilità si è fatta eco creativa, lungo i secoli, la tradizione cristiana. Già Sant’Agostino, con penetrante acume, argomentava: «La carità spinse Cristo a incarnarsi. Dunque, chi non ha carità nega che Cristo è venuto nella carne. (...) È lo Spirito di Dio quello che dice che Gesù è venuto nella carne e questo afferma non con la lingua ma coi fatti, e lo dice non col suono delle parole ma con l’amore. (...) È dunque chiaro il criterio di discernimento, o fratelli». Né altro è il significato della luminosa sentenza di Tommaso d’Aquino, secondo cui la carità è «la forma di tutte le virtù», ivi compresa la fede. È quello che Paolo intendeva. Una fede che non sia sempre più risposta di totale affidamento a Dio riconosciuto e creduto per chi Egli è, agape, pur nel chiaro-scuro anche tragico della vita, e una prassi di solidarietà, che non sia da dentro di più in più permeata dell’agape, che sgorga da Dio e trasforma il nostro cuore, dicono poco o niente di Gesù Cristo. Mentre può essere che un cuore sincero, puro e generoso sia visitato dalla sua grazia e se ne faccia testimone, anche senza che egli se n’avveda: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).