Dibattito. Il valore spirituale della tecnologia, teso verso l'infinito
La Stazione Spaziale Internazionale in orbita attorno alla Terra
Dalle osservazioni della Terra nell’ambito dell’agricoltura, ai radiotelescopi sulla Luna. Dalle prospettive future dell’Europa e dell’Italia in campo spaziale, ai futuri insediamenti su Marte. Prende il via la quinta edizione del Festival dello Spazio, con sede a Villa Borzino, a Busalla, in programma dall'8 all’11 luglio. Faranno da cornice al Festival molti eventi esterni che si svolgeranno in serata, come la conferenza di Giuseppe Tanzella-Nitti (Pontificia Università della Santa Croce e Vatican Observatory) dal titolo “La tecnologia ha un valore spirituale”, con riflessioni, che qui anticipiamo, sul significato teologico del progresso scientifico. Il programma completo al sito www.festivaldellospazio.com.
La domanda se il progresso tecnologico possa avere un valore spirituale è certamente inconsueta. Ma non è inconsueto, per quanto strano possa sembrare, parlarne nel contesto delle imprese spaziali, come fanno quest’anno gli organizzatori del Festival dello Spazio, giunto alla sua quinta edizione. I meno giovani di noi ricorderanno la lettura del primo capitolo della Genesi che Frank Borman fece inaspettatamente durante la prima circumnavigazione della Luna, la vigilia di Natale del 1968, mentre per la prima volta nella storia vedevamo spuntare il pianeta blu, la nostra Terra, dietro l’orizzonte della Luna. O la lettura del Salmo 8, propostoci da Buzz Aldrin il 21 luglio quando il Lem era poggiato sul suolo lunare. Von Braun, di fede cristiana, vedeva nelle imprese spaziali una missione spirituale, quella di estendere l’intelligenza umana nel cosmo, a testimonianza della grandezza del suo Creatore. David Noble raccolse in un libro pubblicato nel 1997, intitolato The religion of technology, le testimonianze di tecnici e astronauti attorno alla corsa alla Luna, tutti convinti che il genere umano stesse quasi obbedendo ad un mandato divino: la frase di Kostantin Tziolkovsky, «la terra è la culla dell’umanità, ma non si può vivere per sempre in una culla», era ormai un ritornello a tutti noto. L’esplorazione dello spazio, in fondo, è in continuità con quanto Homo sapiens cominciò a fare quando mise i suoi primi passi. Cosa c’è al di là del fiume? Cosa troveremo oltre questa pianura, dietro queste montagne? Le sue varie migrazioni “out of Africa” non erano dettate da istinti di nutrizione e di riproduzione. Cercava qualcosa di più, qualcosa verso cui si sentiva attratto in modo innato: capire, esplorare, avanzare. A differenza degli altri animali, il nostro progresso culturale ha influito sulla nostra evoluzione biologica, determinandone gli esiti. Abbiamo lasciato sorprendentemente indietro tutti gli altri animali. In poco più di 200.000 anni abbiamo traslocato dagli anfratti e dalle grotte alle stazioni spaziali in orbita e abbiamo passeggiato sulla superficie di altri corpi celesti. Nello stesso periodo di tempo, i Primati superiori, anche quelli che sanno usare gli arti superiori, non sono progrediti per nulla nel loro modo di procacciarsi il cibo o costruire ripari. La teologia cristiana può, con umiltà, azzardare una risposta: l’essere umano aveva ed ha un compito da realizzare. Per questo l’uomo è stato creato e amato dal suo Creatore. Uno sguardo alla sacra Scrittura e agli insegnamenti della Chiesa cattolica ci autorizza a pensare che la tecnologia, e dunque anche le imprese spaziali, partecipino al mandato assegnato da Dio ai nostri progenitori di prendere in consegna un creato in progress, in statu viae, per condurlo al suo compimento, come ricorda il Catechismo della Chiesa cattolica (cfr. n. 302). Prima del peccato originale la Genesi afferma che «il Signore prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gen 2,15); non c’era erba verde, aveva prima indicato, perché il Signore non aveva fatto piovere e non c’era nessuno che lavorasse il terreno, né che facesse salire dalla terra l’acqua nei canali, per poter irrigare il suolo (cf. Gen 2,4-6). Dunque un lavoro richiesto all’uomo (perché lo coltivasse), e un’attività tecnica intelligente (costruzione di canali, conoscere le leggi dell’agricoltura). Si tratta di una custodia non solo materiale, ma anche spirituale: il verbo “custodire” ( shamar) è il medesimo usato quando si parla di custodire la vita umana o la legge di Dio nel proprio cuore. Che la Bibbia riservi un’attenzione speciale alla tecnica lo si vede poi nella speciale attenzione riservata alla costruzione dell’arca dell’alleanza, autentico capolavoro artistico e ingegneristico, e alla costruzione del Tempio di Gerusalemme. Il Nuovo Testamento ci consegna lo stesso messaggio, arricchito dallo straordinario annuncio che Dio si è fatto uomo, ha lavorato con mani d’uomo, in mezzo a noi. Con la natura umana, il Verbo divino ha assunto anche il lavoro e tutto ciò che questo implica. Gesù di Nazaret è conosciuto come figlio del fabbro (cfr. Mt 13,55) ed egli stesso come fabbro o carpentiere (cfr. Mc 6,3). Il vocabolo greco tektón (la cui radice ricorda il sostantivo italiano tecnica) vuol dire operaio, carpentiere, colui che realizza e produce qualcosa di utile alla vita umana. I cristiani dunque, ci piaccia o no, sono seguaci di un tecnico. San Paolo ci presenta il grande “movimento” con cui Gesù Cristo, median- te il suo mistero pasquale, riordina la creazione disordinata dal peccato e la porta verso il suo compimento. Lavorando per amore, l’uomo coopera a ricapitolare tutta la creazione in Cristo perché, nello Spirito santo, sia ricondotta al Padre. Diverse e suggestive pagine della Gaudium et spes ci spiegano come l’attività umana, includendovi la scienza e la tecnica, partecipa a questo moto, trasforma il mondo, lo santifica. È costruendo la città degli uomini che ci si muove verso la città di Dio. La tecnologia ha un valore spirituale, e lo possiede in sé, non solo perché attività umana. Non è un mero strumento, neutro, da usare per il bene o per il male, come un martello. È il modo con cui gli esseri umani, in Cristo, prolungano l’opera del Creatore, contribuendo alla realizzazione del piano provvidenziale di Dio nella storia (cfr. Laborem exercens n. 25). È un po’ come dire che, oltre agli scienziati che parlano di Dio (e ve ne sono un certo numero), anche gli ingegneri possono parlare di Dio, e farlo proprio in quanto ingegneri e perché ingegneri.