Riscoperte. Il tesoro nascosto delle anime morte di D'Arrigo
Contadini a Piana de’ Greci, da “L’Illustrazione italiana”, 21 gennaio 1894
E se fosse andata diversamente? Se tra sul finire degli anni Quaranta Luchino Visconti, anziché smarrire il soggetto inviatogli da un giovane intellettuale siciliano, avesse diretto un film intitolato Il compratore di anime morte? Forse non avremmo avuto Il Gattopardo cinematografico (il romanzo di Tomasi di Lampedusa, del resto, non uscì fino al 1958) e forse non avremmo avuto neppure Horcynus Orca, che del Novecento italiano rimane uno dei capolavori indiscutibili e nello stesso tempo misconosciuti. Ma andiamo con ordine. Il compratore di anime morte è l’inedito di Stefano D’Arrigo ora pubblicato da Rizzoli – che ha in catalogo tutta l’opera in prosa dello scrittore siciliano – con un’illuminante nota critico- filologica della curatrice Siriana Sgavicchia (pagine 284, euro 20,00). E D’Arrigo è, appunto, l’autore di Horcynus Orca, un racconto che è epico in sé, oltre mille pagine di riscrittura dell’Odissea in una lingua di meravigliosa invenzione. Di «una lingua che non si più dire» – nella quale il dialetto vitalmente si mescola con reminiscenze greche, arabe e normanne – D’Arrigo aveva cantato già in Codice siciliano, la raccolta poetica che nel 1957 aveva segnato il suo esordio. Da allora in poi aveva smesso di firmarsi con il nome di battesimo, Fortunato, e aveva stabilito di chiamarsi Stefano, Stefano D’Arrigo. Nato ad Alì, in provincia di Messina, il 15 ottobre 1919 e morto a Roma il 2 maggio 1992, D’Arrigo è una figura ammantata di leggenda. Una parte della stesura originaria del futuro Horcynus Orca era apparsa nel 1960 sul Menabò di Vittorini, attirando l’attenzione di Arnoldo Mondadori. Da allora, per quindici anni, l’editore tenne sotto contratto l’autore, corrispondendogli uno stipendio mensile in attesa che il gran romanzo fosse terminato. Horcynus Orca arrivò nelle librerie nel 1975, preceduto da una campagna mediatica che per l’epoca non aveva precedenti e che oggi, di sicuro, non sarebbe destinata a un romanzo di impianto sperimentale. Fedele al modello omerico, D’Arrigo descrive il viaggio di ritorno verso un’isola. Solo che questa volta l’isola è la Sicilia e, al posto di Ulisse, c’è il marinaio ’Ndria Cambria, che all’indomani dell’8 settembre 1943 cerca di varcare lo Stretto e si ritrova coinvolto in una partita di caccia alla fera, l’orca assassina che infesta quel tratto di Mediterraneo ( I fatti della fera era il titolo della redazione originaria, pubblicata integralmente solo a partire dal 2000). Dopo Horcynus Orca, D’Arrigo pubblicò nel 1986 un altro romanzo, Cima delle nobildonne, che si distacca e dal precedente per l’ambientazione contemporanea, per la tematica di carattere scientifico (rivisitata tuttavia in chiave mitica), per il ricorso a una lingua che riconduce a lineare esattezza la straripante esuberanza di Horcynus Orca, un libro che George Steiner metteva al pari dell’Ulisse di Joyce. Per rendersi conto del potere di fascinazione esercitato dall’opus magnum di D’Arrigo si può fare riferimento a Nel ventre dell’Orca, la graphic novel di Michela De Domenico pubblicata nel 2022 da Mesogea (la casa editrice messinese alla quale si deve la più recente riproposta di Codice siciliano) e ispirata alla vicenda del traduttore tedesco del romanzo, Moshe Kahn. Tutto questo, nel momento in cui D’Arrigo allestisce il brogliaccio del Compratore di anime morte, è ancora all’orizzonte. Approdato a Roma nell’immediato dopoguerra, lo scrittore è alla ricerca di una qualche stabilità economica che potrebbe venirgli dal giornalismo oppure dal cinema. Si profila così l’idea di un adattamento delle Anime morte di Gogol’, collocato non più nella Russia zarista, ma nel crepuscolare Regno delle Due Sicilie. La velleitaria impresa di Cirillo Docore, il napoletanto “orfano della Nunziata” che prende il posto dell’affarista Cicikov, si colloca infatti in una Palermo che inconsapevolmente attende lo sbarco dei Mille. Il protagonista, ignaro di politica, ancora non si capacita della fortuna che gli è toccata: ormai trentenne, è stato finalmente adottato da un principe dal nome altisonante, Don Ettorino di Margellina, che ha sperperato nel gioco l’intero patrimonio. Ma Cirillo, che finora si è mantenuto con il lavoro di scrivano alla Real Beneficienza, è persuaso di conoscere lo stratagemma definitivo, che gli permetterà di vivere come ha sempre sognato. Basta trasferirsi per un po’ in Sicilia, terra stremata dalla fame e dalle epidemie, e raccattare dai proprietari un bel malloppo di «anime morte », contadini censiti come vivi e morti nel frattempo, per rivenderli al demanio con esorbitante profitto. Cirillo, però, non ha la spregiudicatezza del Cicikov gogoliano, tutto quell’accumulare denaro (sempre che il denaro si lasci accumulare, è chiaro) ha come obiettivo la costituzione della famiglia che sempre gli è mancata. Il principino putativo vorrebbe sposare una principessina, solo che sulla strada incontra la bella popolana Rosalia, e intanto finisce in carcere, e intanto ancora arriva Garibaldi… Per chi già conosce D’Arrigo, Il compratore di anime morte è una lieta sorpresa e, insieme, una piena riconferma. Sia pure nella forma di un rapido trattamento, il libro ritrovato (il dattiloscritto fa parte del lascito conservato al Gabinetto Vieusseux di Firenze) ribadisce il talento linguistico e la felice inventiva dell’autore. Il rimaneggiamento del romanzo di Gogol’ è condotto in maniera estrosa non meno che puntuale e lo scenario siciliano anticipa di ampia misura lo Sciascia di Il consiglio d’Egitto, che porta la data del 1963. A ben guardare, in ogni caso, la consonanza più ragguardevole è proprio con Il Gattopardo, se non altro per la raffigurazione di una Palermo messa sotto scacco dall’Eroe dei Due Mondi. Ecco perché, se mai avesse girato Il compratore di anime morte, difficilmente Visconti si sarebbe applicato al romanzo di Tomasi di Lampedusa. Non è andata in questo modo, lo sappiamo. Il soggetto è andato smarrito o forse il regista se ne è sbarazzato. Magari D’Arrigo aveva sbagliato interlocutore, chissà. Magari a Vittorio de Sica la storia di Cirillo Docore sarebbe piaciuta. Sì, gli sarebbe piaciuta assai.