Agorà

La parabola degli scrittori meridionali di fronte al capitalismo industriale. Il Sud narra il sogno infranto della fabbrica

Giuseppe Lupo mercoledì 1 luglio 2015
Per quanto possa risultare anomalo, molta della letteratura ispirata dal capitalismo ha trovato e trova humus nelle regioni meridionali: non tanto in Basilicata e in Sicilia, dov’è completamente assente, e nemmeno in Calabria, in cui gode di piccole attenzioni nei più recenti romanzi di Carmine Abate, piuttosto in Puglia e in Campania, sia pure con discontinuità cronologica. Infatti, mentre in anni recenti l’attenzione degli scrittori sembra concentrarsi sugli impianti siderurgici di Taranto, un tempo si guardava soprattutto a Napoli e all’area vesuviana. L’Ilva di Bagnoli, per esempio, faceva da scenario a Tre operai di Carlo Bernari (1934) – un romanzo che narra l’addio alla civiltà contadina favorendo l’immagine di una fabbrica a forti tinte crepuscolari – ed è il medesimo luogo in cui Ermanno Rea ambienterà la sua malinconica Dismissione (2002). Nel passaggio da Bagnoli a Taranto c’è qualcosa in più di un semplice andirivieni geografico, c’è la denuncia di un fallimento, il constatare che il miraggio di un Sud pieno di ciminiere si è rivelato un’angosciante macchinazione di inquinamento e di morte. Un incubo più che un sogno. Il sovrabbondare di narrazioni che guardano a Taranto e al suo dissesto ecologico, disposte in quel circuito che comprende i nomi di Cosimo Argentina, Mario Desiati, Nicola Lagioia e Cristina Zagaria (con un antesignano di eccezione: Malvarosa di Raffaele Nigro); il narrare il tramonto della fabbrica come tragedia degli individui nutriti dei suoi frutti più nocivi dello smog di Calvino, è un tema che sta agli antipodi rispetto ai libri collocati in aera campana, gran parte dei quali risalgono a una cinquantina d’anni fa, nel momento in cui i processi di sviluppo parevano a portata di mano, soprattutto con l’arrivo di due importanti realtà imprenditoriali – la Olivetti e l’Alfa Romeo – che autorizzano a inserire i luoghi di Pozzuoli e Pomigliano d’Arco in questa ipotetica nomenclatura industriale. Tra le due esperienze imprenditoriali va fatto però un distinguo: a differenza della casa automobilistica milanese, incapace di generare narrazioni di respiro epico-letterario, negli edifici meridionali dell’azienda di Ivrea trova ospitalità un capolavoro di prim’ordine come Donnarumma all’assalto di Ottiero Ottieri, libro di speranze tradite o di illusioni mancate. Questa sembra essere la cifra più consona delle scritture che appartengono alla topografia campana. Nelle quali rientra Era l’anno del sole quieto di Bernari (uscito nel 1964, ora ripresentato in una nuova edizione da Hacca, con prefazione di Antonio Calabrò e postfazione di Daniele Piccini): un romanzo che fa da ideale risposta al libro di Ottieri, scritto sul vento delle illusioni che spirava sopra quel vasto comprensorio di terre e di paesi che Michele Prisco aveva definito «provincia addormentata». Un argomento comune attraversa entrambi ed è l’idea che non ci sia altro modo per combattere la disoccupazione se non quello di guardare con speranza agli imprenditori del Nord: ad Adriano Olivetti, imprenditore utopico e controcorrente (nel caso di Ottieri), a Orlando Rughi (nel caso di Bernari), docente universitario di origini emiliane, intenzionato a costruire un’azienda chimica da collocare in un’immaginaria cittadina chiamata Apragopoli. Nel romanzo di Ottieri la fabbrica esiste, vengono avviate le selezioni del personale e pur tuttavia il suo protagonista, l’aspirante operaio Antonio Donnarumma, continuerà inutilmente a perseverare nel sogno di varcare i cancelli e darsi un futuro da tuta blu. In Bernari, invece, i tentativi di edificare una fabbrica si smarriscono nel labirinto della burocrazia. Per le plebi meridionali non resta che la fuga verso le città del Nord, Milano o Torino, una scelta obbligata, che tuttavia spalanca lo spettro della desertificazione: termine che in Bernari identifica i luoghi abbandonati, con un anticipo di almeno mezzo secolo rispetto agli studi antropologici condotti da Vito Teti o ai sondaggi sulla paesologia di Franco Arminio e Carmen Pellegrino. Sia negli assalti alla fabbrica tentati da un aspirante operaio secondo le modalità di una moderna crociata, sia nel complicato e compromettente giro di consultazioni cui si deve piegare il professor Rughi per ottenere permessi e licenze, emerge una linea di continuità che tende a mortificare il progetto di un Meridione industrializzato. Le spinte per un capitalismo che non determini solo ricchezze, ma tenti di coniugare economia e moralità, troveranno l’ostilità di un ambiente capace solo di opporre rallentamenti o rifiuti in nome di una consuetudine spagnolesca, che si apparenta certo con la condizione di tempo immobile o con la disposizione a non fare e dove il fraseggio degli appalti, il rito delle conoscenze fa di Puntillo, interlocutore del professor Rughi, un hidalgo di un picarismo burocratico. A fidarsi della letteratura verrebbe da sospettare non tanto un clima di contrarietà nei confronti della fabbrica, quanto un eccesso di sfiducia nei suoi meccanismi, nella sua capacità di assicurare un destino agli individui in attesa di riscatto. E questo è l’elemento che segna la distanza tra la cultura del lavoro germinata sopra il Po e i presupposti narrativi scaturiti da un Meridione che in settant’anni non è uscito dall’ambiguità di una sotto-economia capitalista, anzi ha visto naufragare le speranze e ora addirittura patisce le complicazioni della deindustrializzazione, assiste all’autunno delle fabbriche senza avere mai goduto i suoi frutti.