La mostra. L'arte di Massimo Lippi ripopola il cuore sacro di Siena
Una delle installazioni di Massimo Lippi nella mostra “Magazzino del Sole” a Siena (Alberto Muciaccia)
A Siena davanti al Duomo c’è un grande disco inclinato rosso fuoco, da cui sprizzano a raggiera delle lunghe aste che si flettono nell’aria simili a canne agitate da un vento invisibile. Sono diciassette, tante quante le contrade. Sul piano inclinato i bambini ci giocano. Massimo Lippi ne è felice. È il suo Sole Invitto: «Un parroco, non “di campagna”, in un’omelia mi ha dato del neopagano… Ma il cristianesimo fin dalle origini ha fatto di questa immagine antica un segno di Gesù che viene e irrompe nella storia. Sapienza di chi riconosceva come in Cristo si riassumono tutte le cose. Il popolo, la gente ha capito questo segno di gioia nella città».
Questa scultura alta nove metri è una giostra di fuoco modellata nell’aria. «Rielaboro continuamente ciò che ho appreso dai due agli undici anni – dice l’artista e poeta cresciuto immerso in una civiltà della terra schiantatasi sotto il peso della modernità – Da bambino passavo ore a disegnare e scrivere nel buio con un tizzone ardente tra le mani. Pensavano fossi matto... è l’orma del foco che io ancora inseguo».
La scultura è il segno più vistoso di un vasto intervento che Lippi ha portato in queste settimane nella sua Siena per farne quasi una città santa. Una serie di iniziative tra mostre, installazioni e performance, che si concluderanno a fine mese. Nel cortile di Palazzo Pubblico c’è un altro “sole”. Dal centro del disco rosso sprizza un fiotto d’acciaio come un geyser di sangue, mentre tre frammenti metallici appoggiati sullo scudo richiamano la Trinità. È un segnale di quanto segue nel ventre profondo del Palazzo, in quelli che un tempo erano i magazzini del sale che Lippi, con una mostra dal forte sapore installativo, ha trasformato in “Magazzini del Sole”.
Sculture e disegni tra recentissimi e pezzi storici sono legati da una serie di lavori realizzati a terra con il sale sopra teloni neri, veri e propri paesaggi e figure cosmiche: il sole, la luna, galassie al cui centro è piantato un bastone contadino, panorami in cui tempo e spazio, maschio e femmina si compongono e ricompongono di continuo. Il sale, spezzato grossolanamente, ha la forza di una pietra di luce. Lippi lo modella con le mani («Pettino il sale. È la creazione del mondo»), vi scava per fare emergere il fondo scuro, come una vertebra, un’impronta, un volto. Non è una opposizione manichea buio-luce, non c’è ombra del guasto platonico che deprime la carne della realtà di fronte allo spirito. Il sale è metafora dell’eterno sole, la fonte d’amore da cui sgorga la vita: «Alla luce del sale ho opposto la massima negritudine. Ma la carne non è una prigione. La carne redenta vola verso l’infinito. Non si decompone perché… è sotto sale».
Sono opere che bruciano. «Lascio fluire in me la storia dei miei santi, di Siena, deposito la luce nelle tenebre. Le quali si alleano per fare tutto santo: la tenebra non è simbolo dell’irredimibile ma contrasto attraverso cui la luce si rivela». L’arte di Lippi si libra vertiginosamente sul “mirabile commercio di scambio”, come lo definiva Agostino, al centro dell’Incarnazione: «Nella propria natura – scrive il padre della Chiesa – egli non aveva di che morire per noi, se non prendeva da noi una carne mortale. Così l’immortale è potuto morire, così ha voluto donare la vita ai mortali, rendendoli partecipi di se stesso, dopo che lui si era fatto partecipe di loro». Massimo Lippi è un uomo splendidamente medievale: ragione e mistero non collidono, si esaltano. Le sue antenne sono sensibilissime ai terremoti dello Spirito. «La luce implode e riesplode », dice.
Un grande nocciolo di alabastro bianco si accende di luce all’interno. Una bava rossa è racchiusa nel nocciolo di cristallo al centro del Sole, luce coagulata. Il nocciolo di pesca è un’altra immagine che gli arriva dall’infanzia. La potenza del seme, più spesso rosso come il fuoco, come il sangue: gli elementi di Caterina, la mistica con cui Lippi intrattiene un colloquio quotidiano. Non può essere diversamente perché Lippi è Siena e Siena è Lippi. «Un amico straniero mi dice: “Tu realizzi un pensiero antico di Duccio, di Simone Martini, della tua gente. Per me è chiarissimo”. È vero, c’è un rapporto filogenetico. Io spazzo la bottega di Duccio e di Simone Martini. Spazzo la bottega, sì, ma sono con loro. Come sono di Beuys e Kounellis». Una stella è composta dai fili di nylon «della scopa con cui pulivo per terra. Tutto è santo».
Un legno, un grosso cilindro di cera rossa, un vecchio oggetto contadino compongono il ritratto interiore del figlio. Hanno la forza e la necessità di un sillogismo. «Io non assemblo, io compongo: noi non siamo assemblati! È un fatto di inventio, dicevano gli antichi: che è tanto trovare quanto inventare. Se quell’oggetto non è in quella posizione, non è niente. Non mi interessa essere moderno, è un falso problema. Solo essere epitome, tenere in me le cose nuove e antiche, nova et vetera. Io non fo avanguardia per stupire, per una trovata che ne macina un’altra, all’infinito. Gli altri vedono l’estetica, io la spiritualità profonda. La Chiesa deve uscire da un problema di estetica, solo allora ci sarà una salvezza per l’estetica. Non possiamo pretendere di prendere il Vangelo e chiuderlo in una scultura se l’arte non c’è. Senza la religione la bellezza è inutile o peggio è falsa. L’arte di per sé non salva. Solo la bellezza-Cristo salverà il mondo».