Agorà

Testimoni. Il santo ladino che evangelizzò la Cina

Diego Andreatta sabato 16 agosto 2014
«Credete, se vi dico la China non esser più brutta della bella Badia?»  Così nella lettera del 28 luglio 1885 sapeva di non poter certo convincere i suoi genitori Giovanmattia e Anna Maria, contadini tirolesi del maso di Oies, ma il missionario ladino Giuseppe Freinademetz, primo santo dell’Alto Adige, a 33 anni era ormai quello che si era proposto di diventare: «un cinese fra i cinesi».  Era noto col nome Fu Shenfu (che significa più o meno  «sacerdote fortunato») e si era dedicato in quei primi sei anni ai 12 milioni di poveri dello Shantung del Sud. Considerava la Cina come sua nuova patria. Al punto da dimenticarsi della valle altoatesina: «Però state pure, cari miei di casa - precisava ai genitori e ai fratelli, usando qualche espressione ladina – che neppure in una S. Messa mi dimentico di voi: fuori della S. Messa, devo confessarvi che non ho il tempo di pensar molto altrove ovvero di lasciarmi increscere do [prendere dalla nostalgia di, ndr] la bella Badia». Le sue lettere ora pubblicate da Emi nel volume L’amore è l’unica lingua compresa da tutti i popoli (pagine 160, euro 13,50), verranno presentate in una mostra al prossimo Meeting di Rimini. In esse si esprimono la concretezza degli affetti e il martirio dell’evangelizzazione cinese. Un profilo spirituale di «grande missionario», al quale il mistico don Divo Barsotti ha dedicato nel 1976 un libro in cui osserva come l’appartenenza a un piccolo gruppo etnico consentisse a Freinademetz di vivere e realizzare «più di tanti altri» la vocazione missionaria «che è la vocazione cattolica della Chiesa»: «l’umiltà della sua nazione ladina– conclude Barsotti – fu condizione che  favorì la sua apertura cattolica».«Anche in cielo non vorrei essere altro che un cinese» arrivò a scrivere Giuseppe-Fu Shendu, avvertendo forse la sua morte prematura a 56 anni, avvenuta a Taikia per un’epidemia di tifo, quando ormai il pizzetto, la testa rasa e la treccia sulla nuca lo avevano anche fisicamente assimilato ai suoi fedeli. Così venne ritratto nella gigantografia della sua canonizzazione il 5 ottobre 2003 e così – il crocifisso in mano e la giacca dai bottoni tirolesi – appare nella casa natale di Oies, ormai meta di pellegrinaggio di tanti tirolesi che diffusero la sua fama di santità: «Fin da piccoli in val Venosta c’invitavano a pregare perche la Chiesa lo riconoscesse santa», testimonia oggi una signora in visita alla vicina chiesetta realizzata a forma di pagoda.Nella rustica stanza di legno dei Freinademetz s’inginocchiavano tre volte al giorno i nove fratelli per pregare la Madonna e recitare ogni giorno il rosario. Una fede semplice e tenace, aperta alle necessità del mondo, che spalancò gli orizzonti del piccolo «Uiöp» (Giuseppe in ladino), quando scese a studiare al seminario di Bressanone – undici ore a piedi, la prima trasferta – e si fece religioso nel nuovo istituto missionario dei verbiti, la Società del Verbo Divino, con sede a Steyl, in Olanda. Dopo una sosta a Roma per la benedizione di papa Leone XIII, il 15 marzo 1879 salpò con la neve da Ancona alla volta di Hong Kong per giungere poi nella regione cinese dove, a partire dallo studio della lingua e delle consuetudini locali, realizzò una rispettosa inculturazione. Figlio di un’epoca che vedeva nella terra dei pagani «il regno di Satana», Freinademetz fu però ben presto apprezzato per la sua indole evangelica e la sua bontà d’animo dai fratelli cinesi: ecco i primi battesimi, la formazione dei catechisti attraverso testi tradotti da lui in cinese, un carisma attrattivo. Girando a cavallo centinaia di villaggi, conobbe le violenze dei persecutori che consideravano i missionari «diavoli stranieri» e rischiò «tre o quattro volte» di essere ucciso, ma il suo riferimento al mistero della Croce lo sostenne nel compito di «annunciare il Vangelo ai cinesi, portare la fede ad un popolo immenso».  Giunsero altri missionari, divenne il loro responsabile: «Cominciammo qui con 158 cristiani vecchi – scrisse nel 1907, nel 25° della sua missione – adesso ne abbiamo in vita 40mila battezzati e 40mila catecumeni… Una bella raccolta d’anime, gran consolazione in mezzo a tante tribolazioni della vita da missionario. Ce ne abbiamo veramente delle allegrezze, delle più pure, come appena se ne conosce in Europa».Costante il suo richiamo alla terra di origine, alla comunione con la famiglia e  alla preghiera dei con valligiani: «Joseph Freinademetz è un santo di grande attualità», disse Benedetto XVI nella visita del 5 agosto di sei anni fa alla sua casa natale durante le vacanze a Bressanone. Dimostrò di mantenere sempre un dialogo vivo con l’Europa (sul cui destino cristiano appariva preoccupato, perché molti europei «senza fede e corrotti cominciano ad arrivare qui») indicando la radicalità della testimonianza cristiana che la Cina esigeva, soprattutto dopo la rivolta dei Boxer nel 1901 che costrinse i missionari a trasferirsi nelle città portuali. Freinademetz volle resistere, al suo posto. Mezzo secolo prima dell’arrivo della Cina rossa di Mao Tse Tung aveva intuito che la nazione più popolata al mondo non doveva rimanere nell’indifferentismo religioso e pagano: «Non c’è niente di più importante della conversione della Cina. Qui vive la terza parte dell’umanità – ebbe a scrivere –. Nel prossimo futuro la Cina inonderà tutto il mondo e con essa entrerà la benedizione o la maledizione nelle famiglie di tutta la terra, a seconda che essa stessa si professi o no cristiana».  Una profezia in parte avveratasi, quanto meno riguardo all’«invasione» cinese dell’Occidente. Uomo pacifico e dialogante, anche se – scriveva con autoironia ai familiari – «porto barba e baffi, come un lambert» (cioè, un mascalzone). «Convertito dai cinesi» che gli entrarono nella pelle così come le pulci ne avevano più volte abitato i vestiti, Fu Shenfu credette fino all’ultimo nell’annuncio del Vangelo al grande continente asiatico, tanto che – come dicono oggi i ladini di Oies – «se fosse vivo lo troveremmo ancora in un villaggio cinese».