L'anniversario. Il Salterio di padre Turoldo a trent'anni dalla morte
Padre Davide Maria Turoldo nel suo studio di sant'Egidio a Sotto il Monte, 1989
Alla nascita, il 22 novembre 1916, gli era stato imposto il nome di Giuseppe, custode silenzioso e paterno. Nel 1935, quando fece la professione religiosa nei Serviti, il figlio di Giambattista Turoldo e Anna Di Lenarda, volle chiamarsi David Maria. Non per rinnegare la propria identità, ma per far germinare con rinnovata determinazione il dono che aveva ricevuto. David come il re cantore dei Salmi, Maria come la madre del Signore, alla quale è intitolata la comunità alla quale aveva scelto di appartenere: i Servi di Maria, appunto, ordine mendicante che dalla Firenze del Duecento si è poi diffuso in gran parte d’Italia, assecondando un istinto alla mobilità che si ritrova puntuale nella biografia di padre David Maria Turoldo. Sacerdote e poeta, talmente compenetrato nel mistero dell’Incarnazione da non sottrarsi mai al dialogo con la contemporaneità, anche a costo di affrontare l’incomprensione e l’esilio interiore. Sono passati trent’anni dalla sua morte, avvenuta a Milano il 6 febbraio 1992, al termine di una malattia feroce, che Turoldo aveva vissuto con coraggio pari alla consapevolezza.
Da quella stagione estrema, segnata dalla sofferenza fisica e dallo spasmo del duello con Dio, era venuta la fioritura delle sue raccolte testamentarie, Canti ultimi del 1991 e Mie notti con Qohelet, uscita nel 1992 con una nota di Gianfranco Ravasi, che di Turoldo era amico da tempo. Insieme, il più biblico dei poeti italiani del Novecento e il più poetico tra gli esegeti della Bibbia avevano pubblicato nel 1987 Lungo i fiumi…, un Salterio ragionato nel quale i Salmi integralmente tradotti da Turoldo erano commentati da Ravasi, non senza l’ulteriore apporto di preghiere e "dossologie" composte dallo stesso Turoldo. Dopo numerose riedizioni, il libro è oggi di nuovo disponibile in una versione rivista e ampliata da Ravasi, che nel frattempo è diventato cardinale e presiede il Pontificio Consiglio della Cultura.
Gli interventi riguardano anche il titolo, che adesso suona I canti nuovi (San Paolo, pagine 752, euro 28), con un evidente rimando ai già citati Canti ultimi. Come nel caso del nome mutato, non si tratta di rinnegare la radicalità della contesa che, negli scritti testamentari di Turoldo (si pensi anche ai frammenti raccolti nel 2002 da Giorgio Luzzi in Nel lucido buio), oppone fede e disperazione, apertura all’intervento provvidenziale e contemplazione di un «divino Nulla» che «annulla / perfino il canto». Una volta di più, semmai, si fa ritorno alla fonte, per scoprire che questa medesima tensione tra abbandono e ribellione è già presente nei Salmi e anzi ne costituisce la cifra più drammatica e vitale. Lo si comprende fin dalla poesia di Turoldo posta in premessa al libro, sorta di moderna litania che si apre con un’ammissione implacabile: «Vieni di notte, / ma nel nostro cuore è sempre notte: / e dunque vieni sempre, Signore». Intimamente connessa al fondamentale studio sui Salmi realizzato da Ravasi nella prima metà degli anni Ottanta, la traduzione poetica di Turoldo ha goduto e continua a godere di un’ampia diffusione autonoma, come potrebbe confermare, per esempio, la versione musicale del "suo" Salmo 23 («Il Signore è il mio pastore, / nulla manca ad ogni attesa»), la cui appartenenza al repertorio liturgico è ormai più che consolidata.
Eppure, nonostante la popolarità sulla quale la poesia di Turoldo ha potuto fare affidamento fin dall’esordio di Io non ho mani nell’immediato dopoguerra, il rilievo del dettato biblico nella sua opera è stato più percepito che analizzato. Non accorgersene, del resto, sarebbe stato impossibile, tanto è fitta la rete di rimandi che emerge anche solo a scorrere gli indici delle singole raccolte, con quelle figure e situazioni bibliche che si rispecchiano nelle vicende dell’epoca di cui Turoldo è stato testimone e protagonista. A compiere finalmente una ricognizione sistematica è lo stesso Ravasi nel saggio posto in appendice ai Canti nuovi. Lo scopo, afferma il cardinale, è «di mostrare che Turoldo ha in pratica cantato tutte le "dense ore di Dio", cioè tutta la storia della salvezza e quindi tutte le Scritture, dalla Genesi all’Apocalisse. Naturalmente le soste, gli accenti, gli amori, le scelte, le stesse "diafanie" dei testi biblici sono differenti e variegati ma l’itinerario di padre David nella Bibbia è quello di un pellegrino che non si stanca mai di rivisitare il santuario a lui caro, scoprendovi sempre nuove meraviglie ». È un’indicazione di metodo preziosa che, al di là delle notazioni messe in risalto da Ravasi (centrale, in questo senso, è la rivendicazione del primato della sapienza rispetto alla stessa profezia, pure solitamente indicata come tratto specifico dell’esperienza religiosa e poetica di Turoldo), permette di auspicare una nuova stagione di apprezzamento critico nei confronti di un autore che non sempre è stato favorito dall’impetuosità e dall’abbondanza della sua produzione. Perché la grandezza di Turoldo, non sta solamente nell’aspra trasparenza dei Canti ultimi («Fede vera / è al venerdì santo / quando Tu non c’eri / lassù!»), ma anche nella compostezza di questi Canti nuovi, nei quali la Parola di Dio e le parole dell’uomo si rincorrono e quasi si confondono. «Il cuore mio non resiste più, / ecco, mi arrendo, Amore: /mia vita ormai eterna», recita la poesia che suggella l’impresa di rendere i Salmi in lingua italiana. E davvero, rileggendo quei versi, si fa fatica a distinguere fra padre David e re Davide.
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