Letteratura. Il ritorno del "Kalevala", epica finnica dal sapore biblico
Akseli Gallen-Kallela, “La difesa del Sampo”, 1896. Il pittore finlandese ha realizzato una serie di illustrazioni per il “Kalevala"
Undici viaggi a piedi nel grande Nord della Finlandia, di villaggio in villaggio, alla ricerca dei depositari di un lascito ancestrale: cantori che si accompagnano l’uno con l’altro, in coppia, mentre rievocano le imprese di eroi leggendari. Ilmarinen, che forgiò il samo, l’oggetto prodigioso dal quale dipende ogni prosperità. E l’aedo Väinämöinen, che dalla mandibola di un luccio seppe trarre il primo kantele, l’arpa al cui suono si risveglia la sapienza degli aedi del Settentrione. E poi ancora Lemminkäinen il seduttore e l’infelice Kullervo, che senza sapere che cosa stesse facendo si unì alla sorella e così la condannò a morte, un po’ Edipo e forse anche un po’ Amleto, dato che fu l’acqua a spegnere la vita dell’incolpevole fanciulla, come più tardi sarà l’acqua ad annegare la pena dell’infelice Ofelia.
Il gioco delle rispondenze potrebbe continuare all’infinito ed è questo, in fondo, il vero fascino del Kalevala, «la poesia tradizionale dei finni » alla quale nel 1891 dedicò un saggio rimasto famoso Domenico Comparetti, che molti ricordano per la sua insuperata ricognizione su Virgilio nel Medioevo (1896). Oggetto letterario ancora oggi sfuggente, il Kalevala ebbe nel 1910 una sonora versione in ottonari italiani approntata da Paolo Emilio Pavolini, grande linguista sul quale pesa una non trascurabile ipoteca ideologica: se Comparetti fu il nonno di don Lorenzo Milani, il traduttore del Kalevala fu il padre di Alessandro Pavolini, figura di spicco del regime mussoliniano e ultimo segretario del Partito fascista nella stagione della Repubblica Sociale.
Registrata la circostanza, il valore dell’impresa compiuta da Pavolini senior rimane intatto, non diversamente da quanto accade per i Cantos rispetto alle convinzioni politiche di Ezra Pound. Non stupisce, di conseguenza, che la viterbese Vocifuoriscena, da tempo impegnata in una capillare riscoperta del patrimonio letterario finlandese, abbia scelto di riproporre il Kalevala secondo Pavolini in un corposo volume supervisionato da Dario Giansanti e da Elisa Zanchetta (pagine 710, euro 40,00), la quale ultima è anche la curatrice della prima edizione italiana dell’imponente Commentario al poema redatto da Hans Fromm e inizialmente apparso in tedesco nel 1979 (Vocifuoriscena, pagine 726, euro 40,00).
Ma che epica è, in definitiva, quella del Kalevala? Un’epica diversa da tutte le altre, si potrebbe rispondere, visto e considerato che l’Omero dei finni non è un personaggio a sua volta protetto dall’austi ra del mito, come l’Omero dei greci, ma un autore del XIX secolo, la cui biografia è prodiga di dettagli. Nato nel 1802 da una famiglia di modeste condizioni (il padre svolgeva il mestiere di sarto), Elias Lönnrot morì nel 1884 al termine di una vita straordinariamente operosa. Fu medico e autore di studi eruditi. Fu, più che altro, il viaggiatore instancabile che, seguendo l’esempio delle ricognizioni sul campo compiute dai fratelli Grimm, per undici volte si avventurò nel Nord d’Europa per trascrivere nei suoi taccuini le imprese di Väinämöinen e Ilmarinen e Lemminkäinen, accomunati dal fatto di aspirare alle nozze con la bella principessa della remota Pohjola. Il prescelto, alla fine, sarà l’industrioso Ilmarinen, ma non è detto che questa sia una fortuna.
Il Kalevala, infatti, non è una storia d’amore, ma un grandioso romanzo magico nel quale l’ossessione per il potere conta più della dinamica dei sentimenti. Non per niente, è a que canti che si ispirò Tolkien per le sue fantasie di spade spezzate e di anelli da scaraventare nell’abisso. Nell’edizione definitiva, apparsa nel 1849, il Kalevala si compone di cinquanta “runi”, l’unità poetico-narrativa escogitata da Lönnrot nel corso delle sue spericolate peregrinazioni tra etnologia e filologia. A segnare una cesura, però, è già la prima edizione del poema, pubblicata nel 1835, per l’esattezza il 28 febbraio, giorno che ancora oggi è celebrato in Finlandia come festa nazionale.
Dotato di una sorta di orecchio assoluto in ambito mitopoietico, Lönnrot non si limita a trascrivere le strofe che raccoglie dalla voce dei cantori, alcuni dei quali vantano un prestigio molto più che locale. Le giustappone tra di loro, integrandole dove necessario con i propri versi, fino a comporre un’epopea organica, che dalla creazione del mondo si spinge fino al compimento dell’età eroica, alla quale subentra la nuova epoca inaugurata dal parto miracoloso della vergine Marjatta. L’esplicito riferimento cristologico rispecchia l’impostazione complessiva della rielaborazione compiuta dal luterano Lönnrot, da un lato disposto ad accentuare gli indizi di un presunto monoteismo naturale presente già tra i pagani e, sull’altro versante, incline a sfrondare la componente cristiana che, di intonazione e intonazione, si era depositata anche sui canti più antichi. Il risultato è un’epica che rimanda sì a Omero, ma con il correttivo di una visione escatologica di trasparente impronta biblica.
Non un falso, sia chiaro. Semmai, un originale costruito ad arte, seguendo un percorso opposto a quello toccato in sorte al samo, marchingegno dalla struttura arcana (somiglia a una pentola per via del coperchio, ma produce farina come se fosse un mulino), che continua a generare benessere anche dopo essere stato ridotto in pezzi. Lönnrot, invece, parte dal frammento per attingere a un’integrità ideale, che non smette di essere meno persuasiva per essere stata stabilita a posteriori.
Agli occhi del lettore contemporaneo quella del Kalevala può risultare un’esperienza straniante, non fosse che per le particolarità di una grammatica compositiva fondata sulla ripetizione incalzante di formule e concetti, come testimonia già l’incipit del poema: «Nella mente il desiderio / mi si sveglia, e nel cervello / l’intenzione di cantare, / di parole pronunziare, / co’ miei versi celebrare / la mia patria, la mia gente». Non c’è dubbio, questa è la voce di Lönnrot, ma al tempo stesso è l’eco degli aedi che lo hanno preceduto. In poesia, del resto, riconoscersi in un “noi” è il solo espediente che permetta di dire “io” senza vergognarsene troppo.