Novecento. Il "rito pubblico" del processo Eichmann
Adolf Eichmann a processo, a Gerusalemme nel 1961
Il rito pubblico, nella storia, avoca a sé un ruolo taumaturgico tutto da rivedere. Non credo nella dimensione collettiva di una catarsi civile. La comunità si diluisce protempore in una soluzione omogenea il cui soluto perde identità e autonomia di giudizio. Appena la soluzione evapora con la fine del rito, i piccoli cristalli delle identità individuali riemergono in tutta la loro frammentazione, irrigidite nello stato originario, sostanzialmente immutate. Il processo Eichmann, momento fondamentale per la conoscenza dello sterminio, non è immune da questo limite. Ancora oggi, quando si parla di Eichmann, un riflesso condizionato lo accosta alle impressioni di Hannah Arendt. Il processo Eichmann è una esperienza surreale che riesce a bucare anche YouTube.
L’aula, i testimoni, la corte, il pubblico ministero Gideon Hausner, che sembra incarnare la furia sgomenta della storia verso chi ha tentato di pervertirne il flusso: tutto del processo ha una densità che richiede di frazionare la visione in piccole parti per non perdersi nel gorgo di una voragine senza sfogo. Poi c’è lui. Adolf Eichmann, alias Ricardo Klement, relitto di una mostruosa onda anomala immaginata, progettata e realizzata da persone normali, per la quale, nonostante decenni di studio e riflessione, non vi è spiegazione. Quando ho cominciato a vedere il processo ero talmente inquinato dalla idea di banalità del male che mi aspettavo di vedere un ragioniere grigio, noioso e sconfitto, del tutto inadeguato all’accostamento con un genocidio, privo del physique du rôle da carnefice. Tanto da non riconoscerlo quando entra dalla porta a scomparsa dietro il cubicolo di plexiglas che dovrebbe proteggere lui ma sembra proteggere gli altri dal male che invade l’aula come una frequenza radioattiva.
Io vedo uno stoico della distruzione, determinato e refrattario a una risacca dell’abominio che annichilirebbe chiunque solo al pensiero. Eichmann è uno che nell’epicentro di una pressione impossibile da immaginare, nella terra di coloro i cui fratelli ha contribuito a massacrare con entusiasmo, ha ancora la forza di stare a testa alta, sfidando l’intelligenza con argomentazioni allucinate e fanatiche. Derubricare i nazisti a personaggi di poco conto, disgustosi e mediocri, magari privi di intelligenza, non aiuta la memoria. I nazisti sono stati il parto condiviso dell’Europa più evoluta di quei tempi, il ventre stesso che ha accolto le sue vittime prima di tentarne l’annientamento fisico, spirituale e politico. Nulla di banale che non sia nella storia di tutti noi. Nulla di eccezionale che non sia nella storia di tutti noi.
La tensione in quell’aula biblica che contiene l’incontenibile, a metà tra una sala di contenzione psichiatrica e un luogo mistico privo di divinità, sembra non avere sfogo, tranne che per un tic cui Eichmann non può opporsi, che contorce la sua bocca in una espressione difficile da definire, tra il grottesco e l’imponderabile, debordamento urgente e incontenibile della distopia indicibile. Quella smorfia che si ripete costantemente contrasta con il tono delle risposte di Eichmann, tanto assertivo quanto chiaramente inaffidabile sul ruolo che sostiene di avere avuto come mero contabile dello sterminio. Quella smorfia tradisce il segreto dell’orrore che i nazisti hanno sempre tentato di dissimulare, come fosse possibile nasconderlo in qualche modo. Quella smorfia ridicola e terrificante è lo stigma diabolico di Eichmann. Un uomo che ha visto nello sterminio il riscatto di una vita che avvertiva come banale e insignificante. Un uomo la cui frustrazione era talmente potente da incanalarsi come una furia dentro lo spiraglio di carriera offerto dal nazismo. Poteva finalmente essere un uomo importante, non importa se dentro un crimine che non conosce eguali nella storia.
È impressionante assistere alla sua lotta interiore tradita da una bocca inaridita: dovrebbe difendersi in maniera convincente per evitare una sentenza, comunque troppo magnanima, ma è talmente attaccato al ruolo che lo aveva trasformato in un personaggio di rilievo che non ci riesce. Si capisce che per lui, al netto di ogni dissimulazione, la Shoah è stata una benedizione, appagamento di un’ansia delirante di gloria, redenzione (secondo lui e molti altri) da una vita anonima che detestava. Questo è il veleno latente che inquina dal profondo ogni società, perché dentro l’uomo. Per i mille e mille Eichmann di ieri, oggi e domani, che vivono sotto le mentite spoglie dell’uomo ordinario infarcito di acredini tossiche e rabbiose, la accettazione della banalità di una vita comune non è il male, ma la via di salvezza.