La critica. Il rischio di «spezzare in due» un'opera davvero unica
Riscoperto un articolo del ’58 nel quale Luciano Erba sosteneva la necessità di una lettura unitaria dei versi precedenti e successivi l’ordinazione sacerdotale: invito che resta ancora valido «Si sa ancora tanto poco di Clemente Rebora!». A sostenerlo nel marzo del 1958, con tanto di punto esclamativo, era un altro poeta, Luciano Erba, in un articolo apparso sulla rivista Vita e Pensiero a pochi mesi dalla morte dello stesso Rebora. Riproposto in questi giorni in formato digitale dalla rivista dell’Università Cattolica, l’intervento di Erba non ha perso nulla della sua efficacia. Al centro del ragionamento troviamo la contestazione della pretesa – sostenuta già allora da numerosi critici – di «spezzare in due parti, del tutto a sé stanti, la carriera poetica dell’autore dei Frammenti lirici e dei Canti dell’infermità ». I due titoli non sono scelti a caso. Si tratta dell’esordio e del congedo di Rebora, della raccolta che nel 1913 rivela la già inquieta ispirazione del giovane intellettuale milanese («L’egual vita diversa urge intorno..») e del sofferto diario della malattia composto dal sacerdote rosminiano («Il sangue ferve per Gesù che affuoca...»). Due persone diverse o, meglio, due diversi poeti? La convinzione di Erba, e di molti dopo e con lui, è che le differenze – innegabili – non vadano a scapito della poesia. Certo, si legge nell’articolo ritrovato, si può affermare finché si vuole che «l’unico poeta che conti per la storia della poesia è il primo Rebora », ma resta vero che «per buona ventura a nessun critico cattolico è passato per il capo di scrivere che l’ottimo, il solo Rebora sia invece il poeta della fede raggiunta».
Nell’analisi di Erba si intrecciano altri elementi (il richiamo alla “linea lombarda” di cui molto si parlava in quegli anni, la necessità di approfondire il cosiddetto “dopoguerra” di Rebora, ossia il periodo successivo al trauma bellico patito sul Pogodra nel dicembre del 1915, in seguito al quale diventa predominante la ben nota «mania dell’eterno»), ma fondamentale appare, già allora, l’urgenza di «una restituzione del poeta e del sacerdote, della sua testimonianza quotidiana» all’insegna di una «costanza spirituale» che l’opera di Rebora, nella sua interezza, documenta. È un auspicio che si è poi realizzato in modo soltanto parziale. Se infatti l’edizione delle Poesie allestita nel 1988 da Vanni Scheiwiller in collaborazione con Gianni Mussini e, più ancora, le eccellenti edizioni critiche delle singole raccolte curate dallo stesso Mussini e da altri studiosi per Interlinea nel corso degli anni si pongono nella prospettiva della sostanziale unicità del Rebora prima e dopo la conversione al cattolicesimo nel 1928, il pur importante “Meridiano” allestito da Adele Dei per Mondadori (Poesie, prose e traduzioni, 2015) presenta nella sua completezza la produzione del primo periodo, riservandosi al contrario il diritto di trascegliere all’interno della “poesie religiose”. Il discrimine, nel caso specifico, è individuato nel carattere devozionale o addirittura d’occasione dei versi scartati, nella convinzione – spiega la curatrice nella “Nota all’edizione” – che «mischiare i campi e le competenze non giovi né al Rebora poeta né al Rebora religioso e sacerdote».
Una presa di posizione apprezzabile per franchezza, ma che rischia di far rientrare per via surrettizia quella frattura fra “primo” e “secondo ” Rebora che il “Meridiano” si era riproposto di evitare. In sede filologica se ne continuerà a discutere a lungo, probabilmente, ma per il momento aiutano a fare il punto della situazione le parole di una poetessa, Patrizia Valduga, che da sempre si è battuta per affermare la grandezza e l’intima coerenza dell’opera di Rebora: «Si è tentato di ridurre la diversità reboriana a malattia, “mania dell’eterno” – ha annotato di recente, sempre su Vita e Pensiero –, ma l’eterno è sempre stato il suo orizzonte, l’orizzonte dell’amore». E qui un punto esclamativo non ci starebbe male.