Fotografia. Il riscatto africano
La locandina del LagosPhoto Festival di Bubi Canal.
C'è un proverbio africano che suona così: «Fino a quando i leoni non avranno i propri storici, i racconti di caccia glorificheranno sempre il cacciatore». Quando si parla di Africa, il rischio è questo. Che siano sempre gli altri a raccontarla. Avviene così nella storia, nella letteratura e nella fotografia. La storia dell’Africa è la storia secondo gli altri, i non africani, i colonizzatori. Il punto non è ribaltare la visione e sostituire la prospettiva del cacciatore con quella del leone, altrimenti il problema di visione (a senso unico) resterebbe, al contrario. Il punto è quello di moltiplicare le prospettive, di allargare le visioni e gli orizzonti, di dare la possibilità ai leoni di raccontare la propria storia. È quello che propone il dossier Così vicini, così lontani che “Nigrizia”, il mensile dell’Africa e del mondo nero, pubblica sul numero di gennaio. Stefania Ragusa viaggia fra le realtà emergenti della fotografia africana per restituirci lo «sguardo espropriato» di artisti e reporter, un punto di vista necessariamente distante dai limiti narrativi di quello occidentale. «Il rischio implicito di ogni narrazione, ma specialmente in quella fotografica – scrive la Ragusa – è l’appropriazione indebita della vita altrui, del dolore e della sofferenza: ecco allora la nostra pena attribuita a qualcun altro, la nostra meraviglia cucita addosso a un volto che resta anonimo, ma diventa pubblico e viene messo a servizio di questo o quel messaggio. Succede spesso nei Paesi in via di sviluppo e nel grande teatro delle tragedie umanitarie (pensiamo anche a donne e bambini esposti in molte campagne di fund raising delle organizzazioni non governative)». Il risultato è il racconto di un altro continente. E di un doppio sguardo.
Nel continente nero si moltiplicano allora le iniziative per fare emergere un altro punto di vista. Altre visioni. Come l’Addis Foto Fest di Addis Abeba, creato nel 2010 dall’artista Aida Muluneh. Quest’anno cinque fotografe etiopiche, Haymanot Honelgn (1993), Hilina Mekonen (1988), Mahder Haileselassie (1990), Netsanet Fekadu (1988) e Luna Solomon (1993) si sono confrontate con il tema della «distanza», a partire dalla «loro» Africa. Una interpretazione approdata anche in Italia al Fondaco Sant’Angelo a Venezia, sostenuta dal bellunese Caffè Bristot che – attraverso la piattaforma Tales-on – si è affidato, a differenza di altri grandi marchi, ai giovani fotografi africani per raccontare i paesi produttori di caffè e il loro bagaglio culturale. Spostandoci in Nigeria, il LagosPhoto Festival fondato sette anni fa da Azu Nwagbogu dopo gli studi a Cambridge, si propone come un incubatore per i giovani fotografi che vogliono esprimere la soggettività del continente. Una di queste è Fati Abubakar. Lei crede nel valore sociale della fotografia e il suo obiettivo è «trovare felicità, bellezza e forza in posti dove non ce le aspetteremmo». Con la serie The Face racconta la vita quotidiana in zone tra le più pericolose della Nigeria. Come Maiduguri, nello stato di Borno, luogo di nascita di Boko Haram. Fati viene proprio da lì. Tra i suoi scatti ci sono i volti di varie donne sopravvissute ai rapimenti. La ragazza di Kayace, comunità dimenticata alle porte di Abuja, che sorride a occhi chiusi mentre le sue treccine fluttuano incorniciandole il volto, è l’incarnazione perfetta di questa aspirazione. Il sorriso che non penseresti di trovare lì.
Il presente, ma anche il passato. Con il progetto virtuale “Nigeria Nostalgy” (nigerianostalgia.tumblr.com), che ha permesso di raccogliere e far circolare una quantità incredibile di foto scattate nel paese dall’inizio del 1900 al 1990. Un’operazione della memoria che sta servendo ai nigeriani per rimettere a fuoco la propria immagine. «Per essere visti diversamente, infatti, bisogna cominciare a vedersi diversamente», sottolinea la curatrice Bisi Silva, figura di spicco sulla scena artistica africana, nel 2015 commissario alla Biennale della fotografia di Bamako (Mali), la più antica e la più importante del continente. Con questo approccio nuovo che porta anche alla consapevolezza di quello che si è, si può spaziare in mondi inesplorati, come la moda, gli stili e le tendenze. Quello che hanno fatto quattro fotografi di Nairobi, Casablanca, Lagos e Johannesburg portando in mostra al Museum e Art Gallery di Brighton, nel Regno Unito, Fashion Cities Africa. Senza contare le “provocazioni”, come quelle del nigeriano Uche Okpa Iroha. Perché «se i leoni cominciano a raccontare le storie, in realtà la grammatica e la sintassi continuano a essere quelle dei cacciatori», condizionando in realtà anche la visione artistica africana. Ed ecco che il fotografo nigeriano in The Plantation Boy reinterpreta fotografie di scena di film famosi inserendo se stesso, per esempio nel Padrino di Francis Ford Coppola, per evidenziare la scarsa presenza di attori neri a Hollywood.
L’obiettivo insomma è quello di arrivare a una visione senza steccati. Libera. In cui non ci sia giudizio. Non ci sia un punto di vista dominante. In cui non ci siano «Paesi in via di sviluppo» o il «terzo mondo», semmai la «Majority world», un’espressione che tradotta letteralmente significa: la parte più grande del mondo. Un’espressione che Shahidul Alam, grande fotografo bangladese suggerisce di usarla sempre al posto, appunto, degli ambigui “third world” o “developing countries”, «perché la decostruzione di un immaginario coloniale passa anche per la scelta appropriata delle parole». Qualche anno fa Alam ha promosso anche la nascita di un’agenzia, chiamata proprio Majority World, per dare la possibilità a fotografi africani, asiatici, mediorientali e latinoamericani di raccontare, dal proprio punto di vista, i paesi di provenienza. Il suo libro My journey as a witness, pubblicato da Skira nel 2011, si apre, non a caso, con il proverbio africano: ««Fino a quando i leoni non avranno i propri storici, i racconti di caccia glorificheranno sempre il cacciatore».