Agorà

INTERVENTO. Il popolo armeno e il sogno dell’Ararat

Antonia Arslan martedì 17 luglio 2012
​C’è una storiella di vent’anni fa che spiega un’emozione profonda che prima o poi emerge in chiunque abbia qualche goccia di sangue armeno nelle vene. L’Unione Sovietica è crollata, e l’Armenia è appena divenuta indipendente. I primi voli portano sul territorio della Repubblica finalmente libera i figli dei rifugiati della diaspora, che da tanti anni hanno sognato il “ritorno a casa”. Quando l’aereo comincia ad abbassarsi, e tutti si affollano ai finestrini per guardare giù le prime immagini della patria perduta, una hostess annuncia: «Spegnete le sigarette, gente, e tirate fuori i fazzoletti. Ecco sotto di voi il monte Ararat». A parte l’allusione al fumo (oggi vietatissimo su tutti gli aerei...), il senso della storiella è sempre attuale e realistico, anche se molto malinconico. La mitica montagna dell’Arca di Noè, col profilo delle due cime, il grande e il piccolo Ararat, è da sempre il simbolo millenario di un popolo perseguitato e quasi distrutto, le cui radici sono state brutalmente tagliate, e a cui è stato tolto per sempre il territorio ancestrale durante gli anni feroci del genocidio. La sua sopravvivenza ha del miracoloso, ma le ferite ancora sanguinano. E l’Ararat in mano alla Turchia è una delle principali. Questo popolo armeno, che ha subìto “tutte le morti del mondo” – come scrisse Armin Wegner, l’ufficiale tedesco che scattò quelle foto dei campi dei deportati che rimangono una testimonianza straordinaria della terribile estate del 1915 – porta impresso indelebilmente nel cuore il profilo della grande montagna, segno irrinunciabile di una storia e di un’appartenenza. Anche a me si riapre l’antica ferita, ogni volta che arrivo all’aeroporto di Yerevan. Nei secoli è là, la nostra montagna incantata. Ci attende nella sua immobile, perentoria grandezza, con le due cime coperte di neve e spesso avvolte di nubi immense, come un gigante corrucciato e silenzioso. Incombe sulla capitale Yerevan, sembra di poterla quasi toccare, enorme in fondo alle sue strade diritte. È sempre là, sembra voler proteggere la città e la gente. Sui suoi fianchi si arrampicarono per secoli i pastori d’alta quota con le loro pecore lanose dalla coda grassa, adatte al clima estremo e alla povertà dei pascoli alti. Sulle sue pendici meno esposte crebbero villaggi e città, culle della civiltà armena, si eressero monasteri, fiorirono nel Medioevo scuole di miniatori e copisti. Oggi sulle rovine abbandonate dei villaggi dell’Ararat si annida quieta solo la serpe. I pastori curdi, che spesso portano nel sangue l’eredità delle ragazze armene, portate via dai loro nonni dalle carovane della morte, durante i massacri, si tramandano i luoghi delle tombe comuni, delle fosse dove ancora giacciono confuse le ossa degli armeni della montagna. Perché il monte non è più terra d’Armenia. Appartiene alla Turchia. Col trattato di Kars del 1921 tutta la regione le fu definitivamente attribuita, per volere del georgiano Stalin, che voleva tenere sotto stretto controllo sovietico le tre repubbliche del Caucaso (Georgia, Armenia, Azerbaigian) e assicurarsi con qualche concessione territoriale la tranquillità del confine con la nuova Turchia di Kemal Atatürk. Salire sulla montagna sacra è oggi vietato a chi porti un nome armeno; e perfino visitare i villaggi diroccati o parlare di queste cose con i pastori curdi è proibito a qualsiasi alpinista voglia affrontarne la scalata. Per gli armeni, l’Ararat è solo un miraggio lontano. Ma è un miraggio che incombe. Ogni volta che ritorno in Armenia questa forza mi assale e diventa più forte. L’ultima è stata quest’anno, alla fine di aprile. Dovevo intervenire, a Yerevan, alla presentazione della traduzione della mia <+corsivo_bandiera>Strada di Smirne<+tondo_bandiera>, che era stata fissata nello stesso periodo della consegna alla città, da parte dell’Unesco, del titolo di “Capitale del libro 2012”. Giorni di festa e commemorazione: il 24 aprile di ogni anno è il “Giorno della Memoria” per gli armeni di tutto il mondo. Fu il 24 aprile 1915 che avvenne infatti a Costantinopoli un evento decisivo per le sorti della minoranza armena nell’Impero Ottomano. Centinaia di persone, che costituivano l’élite di questo popolo nella capitale, furono prelevati di notte dalle loro case, radunati in una stazione ferroviaria e avviati verso un destino di morte, programmata e inesorabile. E fu perché privati dei loro capi politici e intellettuali che gli armeni vennero successivamente aggrediti, deportati e sterminati con maggiore facilità. Sono stati giorni intensi e commoventi, quelli di Yerevan, culminati in un affascinante spettacolo di “Son et lumière” in cui l’antico alfabeto e il suo inventore, san Mesrop Mashtots, le miniature colorate dei manoscritti medievali, i “Santi Traduttori”, i re e le regine che avevano creato quell’immensa cultura del libro, si libravano nell’aria e nella luce davanti al Matenadaran, la biblioteca della città, dove sono raccolti migliaia di manoscritti scampati alla distruzione. Il titolo di “Capitale del libro”calza perfettamente a un Paese che ha fatto del suo meraviglioso alfabeto e della sua civiltà, con chiese di cristallo, croci di pietra, opere pazientemente miniate nei monasteri, un motivo di orgoglio e preservata identità nazionale.