Parigi. Nella pittura di Nicolas De Staël la gioia diventa ferita
Nicolas De Staël, “Siracusa” (1954), particolare
Nicolas De Staël, “Siracusa” (1954) Collezione Catherine & Nicolas Kairis
Fa riflettere la ricorrenza di morti volontarie in tre artisti del Novecento tra i più importanti e pieni di spiritualità. Non furono gli unici in quel secolo, perché l’angst esistenziale tra le due guerre aveva reso il sangue di molti, e non solo tra gli artisti, amaro e nero. I tre pittori a cui mi riferisco avevano parecchie cose in comune, ma ciò che li unisce è la ricerca di se stessi in tre particolarissimi linguaggi della pittura astratta, che li identifica a colpo sicuro. Si potrebbe, et pour cause, dirli pittori europei, del nord-est Mark Rothko e Nicolas De Staël (russo di San Pietroburgo quest’ultimo ed emigrato in Francia; lettone il primo, che andrà poi in America), mentre sul versante meridionale, sui confini euroasiatici vide la luce Arshile Gorky, nato nella Turchia ottomana e approdato in Armenia allo scoppiare della Grande guerra (e infine in America).
Che cosa li spinse a compiere il gesto estremo? Non si può generalizzare, e ciascuno ha la sua storia anche esistenziale, ma è lecito chiedersi cosa cercassero in una pittura che per loro più che per tanti altri era una ragione di vita. E così si è già detto molto: se l’arte può dare a un uomo la ragione per esistere, anzi, per non porre fine a una esistenza, evidentemente dipingere non sarà soltanto un pungolo a cercare quel limite che ti fa capire di aver attinto il capolavoro, ma è anche una ferità, anzi la ferita, quella dove ogni segno, ogni pennellata, ogni amalgama di colore è come acido gettato sulla carne viva. Sono tre geni assoluti della pittura moderna, ed è inutile cercare un vincitore, perché non di partita tra loro si tratta bensì di lenire il dolore di esistere di una intera epoca tragica. Erano vent’anni che Parigi non dedicava una retrospettiva a Nicolas De Staël (in contemporanea, tra l’altro, a quella che la Fondation Vuitton dedica a Rothko). Un anno dopo la sua morte nel 1955, si tenne la prima retrospettiva al Museo nazionale d’arte moderna accanto al Palais de Tokyo.
Come ricorda il direttore dell’attuale Musées d’art Moderne de Paris, Fabrice Hergott, le mostre dedicate a De Staël, si sono tenute nella Capitale con regolarità ventennale. Ma dalla precedente, nel 2003 al Centre Pompidou, quella ora in corso al Museo della città di Parigi (fino al 21 gennaio, scrivono i curatori Charlotte Barat e Pierre Wat, getta nuova luce avvalendosi delle ricerche degli ultimi decenni, aprendosi un varco nella cortina mitica che si è imposta dopo e anche in virtù della morte di De Staël che ha fatto rispolverare il classico e abusato appellativo di “artista maledetto”.
Come racconta in apertura di catalogo la figlia Anne, Nicolas era facile a esplosioni di collera, ma anche molto affascinante. La collera, che montava follemente, come un éclat improvviso, secondo Anne De Staël era la caduta tipica dei bambini, ma a mio parere quella “collera” era anche la linfa necessaria alla sua pittura, una lotta continua con le forze che ardono e agitano la psiche umana. Dopo la morte di Paul Éluard nel 1952, Nicolas scrive a René Char: «la rabbia non è mai abbastanza, mai abbastanza l’amore». Tutto era eroico e lancinante per lo sguardo di Nicolas, figlio di un barone russo baltico imparentato alla lontana con la celebre Madame De Staël.
In quelle due espressioni, eroico e lancinante, c’è tutto l’uomo nelle cui vene scorreva sangue russo e che trascorse una vita breve e violenta: nelle sensazioni, ma non solo nelle sensazioni (alla fine degli anni Trenta fece un paio d’anni anche nella Legione Straniera). Visse a lungo di stenti, i suoi quadri non si vendevano facilmente, e la prima moglie, Jeannine Guillou, morì di inedia lasciandogli la figlia Anne. Quella “miseria” era anche una promessa di gloria, in un certo senso. De Staël era intransigente, scrivono i curatori, ma per tutta la vita fu anche un “uomo della gioia” capace di stupirsi davanti al mare, o per una partita di calcio, a un concerto, o vedendo la sala dei Velázquez al Prado.
Ma se tutto il resto era una questione a suo modo lirica, proprio i Velázquez dovevano aver scoperchiato nella sua testa le stanze da cui attingere direttamente al cielo, coli me una immersione totale nella disperata, inattingibile, superlativa esperienza della pittura. Qualcosa di struggente e di dionisiaco per eccesso di densità e di sublimazione della pittura, ma anche per la capacità di sentire nelle fibre del colore di Velázquez tutta quella “povertà” dell’uomo che non riesce a credere alle sue qualità demiurgiche, perché la bravura si dispiega come una sorta di iato tra mezzi artistici, che non sono solo quelli della tecnica, e, prima ancora la piena assunzione del sentire ciò che si fa, mentre l’opera nasce dalle mani e dall’occhio quasi per un artificio misterioso che ha a che fare con la carne.
Se osserviamo i dipinti degli anni Cinquanta, dove le costruzioni geometriche e le metamorfosi delle nubi nel cielo vivono in quello spazio di prossimità che è la mente stessa del pittore, ci accorgiamo che il giustapporsi degli strati cromatici, che sono membrane frante e ricomposte di colori per semplice o rapsodica oscillazione fra terra e cielo. Quadri dove solidi grigi, pezzature di verdi e di ocra, calcificazioni di bianchi e azzurri; dove, ogni volta, le parti si rovesciano e la pesantezza impenetrabile del muro trapassa nella magica chiarezza del cielo; mentre le terre nere e verdi, gli strati violacei e i blu induriti dalla luce opaca si schiacciano verso il basso.
Geometrie di tacche informi, come i tetti mosaicati di Parigi, la vita dall’alto dei caseggiati e delle loro strisce incastonate dentro i terreni, le ricchissime variazioni di luci e colori dei paesaggi, sono note ricorrenti del 1952. L’anno dopo, ancora le anabasi di informali variazioni di nubi: sembra che De Staël insegua un piano pittorico dove i colori slittano uno nell’altro, verso una profondità che si affida alla sfrangiatura dei bordi cromatici di ciascuno; ma ecco che la matericità torna a far parlare il rilievo degli elementi nello straordinario concerto di bianchi e di grigi che a sinistra sfondano nel verde nel grande dipinto L’Orchestra o in quello, di analogo formato, delle Bottiglie nell’Atelier dove nei grigi di fondo s’incastonano forme e colori degli oggetti sul tavolo. Cose minime che ricordano la poesia di Morandi.
Dobbiamo vedere queste opere come una lenta ma costante messa a fuoco di un modo di essere informali senza negare la figura, che resta lo scheletro non di una percezione distillata nelle strutture (alla Mondrian) ma di una riaggregazione dei segni nella trasvalutazione del colore in mosaico di forme che stanno insieme per l’energia visiva del demiurgo e vibrano di luci e di contrasti preziosi come un oggetto barbaro bizantino, trasformando la sostanza pittorica. È un moto centripeto che porta lo spettatore verso quadri-caleidoscopio che amalgamano luci e materie insieme, come in Alberi rossi, Provenza o il bellissimo Fiori bianchi e gial- o, ancora, Paesaggio di Provenza e Grignan.
Ma con De Staël non si può stabilire una volta per tutte l’approccio: il paesaggio Terre del Nord è una formidabile ascensione di grigi e bianchi che sembra uscire dall’intonaco di un muro; ma poi ecco che Tempio siciliano è una sorta di scavo cromatico che non si allontana dai colori originali delle terre di Sicilia, ma destruttura, quasi come un oggetto archetipico, le forme architettoniche in costruzioni pittoriche astratte. La Sicilia è la terra dove le fughe prospettiche diventano crogiuolo di linee-forza che incastonano schegge di colori di forte pregnanza, e il punto culminante, come nelle due tele Agrigento, diventa un conflitto di forze, reso ancor più metafisico e scioccante di luce nella tela Siracusa.
L’ultima fase, quella del 1954-55, mostra un pittore che alterna astrazione e figurazione come se per lui la pittura non avesse alcuna urgenza di dividersi in tendenze, anzi, De Staël – anche nei suoi disegni a semplice tratteggio lineare, come distillato di una l’idea visiva dello spazio – mentre dipinge barche non sente il bisogno di identificare il tema con l’immagine, perché tanto che dipinga la spiaggia di Marsiglia, o le navi che entrano nelle acque della Laguna di Berre, oppure una darsena per barche, sarà sempre l’architettura essenziale del colore a dichiarare il soggetto. Il finale è punteggiato – e in questo la mostra offre spunti di riflessione non banali – da alcune nature morte che riscoprono più apertamente la rappresentazione figurativa: un’insalatiera, pesci sul banco, stormo di gabbiani, ma soprattutto una serie di opere sulle bottiglie e sui vasi dipinte ad Antibes, luogo dove si toglierà la vita, fanno pensare a strane, anche se non speculari, analogie, come avevo già notato, con il pensiero pittorico di Morandi ( Bottiglie nere, Barattoli e pennelli nell’atelier, Bottiglie grigie).
Sono forme rarefatte e sfumate, come se al pittore mancasse la presa sulla carne delle cose e ne rimanesse ormai solo il fantasma. Un tema più tragico che elegiaco. Di straordinaria, incredibile epifania esistenziale L’angolo dell’atelier, fondo blu, che sembra chiudere questa mostra come un canto del cigno. Nero. Vari decenni fa, in una sorta di ritratto della fine, Émile Cioran scrisse che De Staël «dopotutto avrebbe potuto rinunciare alla pittura, cessare senza dramma di puntare su se stesso, e abbandonarsi a un nulla qualsiasi, dunque tollerabile. Ma non ha voluto sopravvivere a se stesso, odiava la rassegnazione ». I tre artisti su cui ho cominciato si rivelano oggi i più profondi nel dare alla pittura astratta una spiritualità non animistica, bensì esistenziale, oserei dire cristiana. Con un di più di sentimento sacrale della realtà. Ma De Staël ha raggiunto il cielo delle forze infere esponendosi al sole della Costa azzurra, dove il Grand Bleu è, come intuì Picasso, che ad Antibes riscoprì l’arte degli antichi vasai, il demone meridiano da tenere a bada.