Riletture. Il passaggio dal Male alla Misericordia si chiama responsabilità
Dante Gabriel Rossetti, “Dantis Amor”, 1860
Più volte, nell’anno dantesco che stiamo attraversando, si è usata la metafora della selva oscura, per indicare la pandemia, associandola al verso del riveder le stelle, per consolarci in modo apotropaico che prima o poi tutto sarebbe finito, tutto sarebbe tornato come prima. Eppure basterebbe rimuovere pazientemente le incrostazioni figurative e interpretative depositatesi, nel corso dei secoli, sullo scenario della selva priva di luce, per entrare nel dramma interiore di Dante. Purtroppo il tragico evento di Mottarone ci consegna codesta chiave di lettura, nel momento in cui è fin troppo facile chiamarci fuori da quell’evento che la giustizia umana ha definito perentoriamente scelta.
Ma quale è la scelta di Dante nella selva oscura? La novità letteraria di codesta condizione è squisitamente teologica. In Matteo 4, 8-11, il grande avversario viene descritto come un essere parlante, ragionante e conseguentemente tentante, a cui Gesù intima “Vattene, Satana!”. Nella selva oscura il Male è dentro Dante e molto presto si proietterà e diventerà tangibile nelle tre fiere, la lussuria-lonza, la superbia-leone e la cupidigialupa. Particolarmente quest’ultima atterrisce Dante: “questa mi porse tanto di gravezza / con la paura ch’uscìa di sua vista / ch’io perdei la speranza de l’altezza. (…) questa bestia, per la qual tu gride, / non lascia altrui passar per la sua via / ma tanto lo ‘mpedisce che l’uccide; / e ha natura si malvagia e ria, / che mai non empie la bramosa voglia, / e dopo ‘l pasto ha più fame che pria.” (Inf I, 52-54 e 94-99). Dante non si chiama fuori dalle sue tragiche responsabilità, ne è ben consapevole e, in prima persona, si confronta con quella condizione interiore da lui definita “tant’è amara che poco è più morte”.
Di più: descrivendo codesta amaritudine, non patteggia con Mefistofele come Faust, né costruisce un “labirinto teologico” come quello che imprigiona Ivan Karamazov e il Grande Inquisitore, al contrario, nella piena consapevolezza di morire spiritualmente e definitivamente a causa delle tre fiere che lo minacciano, sceglie di cercare, di vivere, il Bene. La salvezza arriva, ma solo nel momento in cui si convince razionalmente che Dio non lo lascerà solo: “Ma poi ch’i fui al piè di un colle giunto, / là dove terminava quella valle / che m’avea di paura il cor compunto, / guardai in alto e vidi le sue spalle /vestite già de’ raggi del pianeta / che mena dritto altrui per ogne calle.”(Inf I, 13-18). È una scelta che parte dalla aversio e arriva alla conversio, seguendo codesta gradatio: il luogo del Male circonda Dante, il Male filtra nella ragione sensitiva di Dante, il Male assedia l’intelletto di Dante: è la punta più alta della curva che potrebbe condurre il poeta alla “morte secunda”, all’eterna privazione di Dio, ma ciò non accade, non per le singolari capacità intellettuali dell’uomo Dante, bensì per volontà di Dio.
È una scelta che si potrebbe sintetizzare nella formula “non io ma Dio” che riguarda, teologicamente parlando, il territorio spirituale di “sapienza, amore e virtute”, quella virtus così argomentata nel De vulgari eloquentia (II, 7, 10): “In eo quod est honestum: in quo nemo dubitat esse virtutem”, ossia “in relazione all’onestà, quanto a ciò, nessuno dubita che il massimo bene consista nella virtù”. Dunque la proiezione di se stesso, autore e personaggio della Commedia, nei dannati dell’Inferno, nelle anime del Purgatorio, negli spiriti eletti del Paradiso, può dare conto a ciascuno di noi che anche dal fondo più cupo dell’abiezione si può risalire verso l’Alto. Anzi ciò naturalmente accade nel momento stesso in cui la mente vuole progredire nella conoscenza e constata umilmente il contrasto tra ciò che sperimentiamo di limitato in noi e ciò che sentiamo illimitato in Dio.
La forma del poema permette a Dante di designare la capacità di costruire e ristrutturare continuamente l’esperienza e la conoscenza del mondo a condizioni date: capacità che non è contenuta in queste condizioni ma è elargita all’uomo da Dio. Ciò che appartiene a quella traccia dell’amore divino, presente in ognuno, non è un riflesso esterno del conoscere ma entra nel conoscere stesso e ha un suo specifico dominio estetico, pur sempre strettamente correlato ai meccanismi conoscitivi. L’esperienza estetica del divino, proprio perché totalizzante e amorosa, è assolutamente appagante, laddove l’atto di superbia conduce alla sorte di Lucifero; al frammentario e allo slegato della condizione umana si contrappone il legato con amore in un volume (Par XXXIII, 86), proprio della condizione divina.
Nella selva oscura, benché abbrutito dall’esercizio del Male, Dante afferma di vedere il sole che illumina il colle; prende così il via quella concezione della luce, già enunciata nel II libro del Convivio: “La dottrina veracissima di Cristo è via, veritade, luce, via, perché per essa sanza impedimento andiamo alla felicitade di quella immortalitade; veritade, perché non soffera alcun errore; luce, perché allumina noi nella tenebra della ignoranza mondana”. Nell’avvio della Commedia il sole è metafora di Dio e come il sole è al centro della vita della creazione ed è l’espressione principale della parola di Dio nelle cose, così la Legge, la parola di Dio è il sole che illumina il mondo della vita morale, perché il regno di Dio è più potente del male.
La ragione teologica, debitamente anticipata dalla ragione estetica, introdurrà Dante alla conoscenza diretta della misericordia divina: “Il limite imposto al male è, in definitiva, la divina misericordia”. Le parole di Giovanni Paolo II possono ben definire la scelta di Dante che, proprio quando si trova nell’oscurità assoluta, concepisce la speranza della luce. La stessa strada percorrerà l’Innominato, folgorato dalle parole “Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia”.