«A Milano, l’altro giorno in metropolitana, sono rimasto colpito da una singolare pubblicità: "Outlet del funerale... 1499 euro tutto compreso". E accanto lo slogan sottolineava: "Non affidarti a chiunque...". Un invito per certi versi inquietante, anche perché nella stessa locandina si vedeva una figura un po’ in ombra, vestita di nero. Ecco, in questa società che esorcizza la morte, anche attraverso la sua spettacolarizzazione, si finisce col lasciare spazio a confuse situazioni di questo tipo, dove a far premio è il prezzo d’occasione, non il contesto. Un tempo non sarebbe successo». Francesco Brancato, teologo, docente allo Studio teologico San Paolo di Catania, esordisce con questa immagine per spiegare l’estrema necessità che c’è nella società contemporanea di tornare a parlare apertamente della morte e di come la fede riesca a illuminare di speranza anche il dolore e la disperazione che a essa si accompagnano. Temi affrontati nel suo ultimo libro per Cittadella:
Realtà escatologiche (pagine 161, euro 13,50), «perché tante volte – afferma – anche nelle omelie dei funerali non si ha il coraggio di parlare dei Novissimi, eppure sarebbe il luogo e il momento adatto».
Però, lo ha detto lei, la morte fa sempre paura.«Fa paura la morte per il dolore che solitamente la accompagna, ma non quello che succede dopo la morte. I nostri vecchi un tempo pregavano invocando di essere liberati da morte improvvisa, oggi invece si chiede la morte rapida, quella che arriva nel sonno, senza che ce ne accorgiamo. Così anche i preti si sono dimenticati di parlare di Paradiso, di Purgatorio, di Inferno. Ma io stesso, che come teologo mi sono occupato spesso di questioni ultime [anche legate all’arte in
L’ombra delle realtà future, sempre per Cittadella,
ndr], posso dire che si tratta di argomenti che, per fare un esempio, contribuiscono fortemente al dialogo fra credenti e non credenti. Anche i filosofi se ne occupano con nuovo interesse, come Virgilio Melchiorre, Franco Rella, Salvatore Natoli: sono queste, del resto, le vere questioni dell’uomo. Come si legge al punto 18 della
Gaudium et spes "davanti alla morte l’enigma della condizione umana diventa sommo"».
C’è l’enigma, c’è la paura, ma la società del consumo fa in modo che restino nascosti...«Certo, di questi tempi viene da chiedersi se si tratti davvero di temi centrali per il vissuto dell’uomo. A questo proposito resto sempre colpito da quel brano della seconda lettera ai Tessalonicesi (7, 10-12) in cui Paolo sottolinea che chi non vuole lavorare neppure mangi, perché, dice "sento che molti di voi vivono senza far nulla e in continua agitazione". Questo accadeva perché nella Chiesa primitiva c’era l’attesa per la venuta imminente di Cristo. Oggi invece c’è sempre qualcosa da fare e non c’è nulla da attendere. Eppure per sua natura l’uomo resta un essere che attende. Ci sono situazioni che ci costringono a fare i conti col senso ultimo della vita, anche se ci confrontiamo continuamente con chi dice che si tratta di favole per bambini. Sempre al punto 18 della
Gaudium et spes si legge che nonostante tutto l’istinto del cuore fa aborrire all’uomo "l’idea che con la morte tutto abbia fine"».
Insomma, se ci fermiamo a pensare, credenti o non credenti, sentiamo dentro un germe di eternità?«Esattamente quello che il documento conciliare vuole dire all’umanità contemporanea. Per questo io penso che bisognerebbe che nella vita di tutti i giorni la Chiesa facesse sempre più appello a questo "istinto del cuore" piuttosto che fornire risposte preconfezionate, lontane, con linguaggi a volte incomprensibili. Dobbiamo guardare a questa ricerca di senso, metterci sullo stesso piano antropologico di chi si pone queste domande, di chi ha questi interrogativi irrisolti nel cuore e mostrare che se la nostra vita è illuminata da una speranza è perché abbiamo in Gesù una luce che ci aiuta a capire. Di fronte alla morte i cuori si aprono e la Parola ha modo di entrare».
Come si legge nella prima lettera di Pietro dobbiamo mostrare, annunciare e vivere la speranza che è in noi.«E per questo è necessario che la teologia torni a occuparsi di queste cose. Non pensando a esse semplicemente come realtà ultime, cioè che vengono dopo, ma come realtà escatologiche, che sono presenti già adesso. Poiché il cristiano non può e non deve essere interessato al Paradiso solo per quel che accade dopo la morte, ma deve vivere già l’oggi come connessione stretta fra quel futuro di speranza e il presente di ogni giorno. Quella speranza illumina e ispira la vita concreta. Non è solo consolazione, ma apre la storia a un futuro che deve ancora compiersi e certamente si compirà. Per questo, come dice Salvatore Natoli, un non credente che incontra un credente non vuole sentirsi dire cose sulle quali siamo tutti d’accordo, ma vuole essere interpellato su ciò che lo inquieta, che lo fa sentire inadeguato. Sul Cristo delle beatitudini la pensiamo più o meno allo stesso modo, ma ciò che caratterizza il credente è la fede nel Risorto, l’attesa della venuta di Cristo alla fine dei tempi e del mio tempo. È la buona novella. Se non ne parla la Chiesa cosa abbiamo da offrire al mondo? Molti filosofi hanno tanto più da dire».