La parola “ariano”, oggi. È quasi un tabù. Ma è, come molti ancor oggi e nonostante tutto sanno, sinonimo di indoeuropeo. Quello dell’arianesimo è stato un grande mito nato dalla cultura linguistica del Sette-Ottocento sul quale ricordiamo che Léon Poliakov ha scritto pagine forse invecchiate, ma che pur restano fondamentali. È chiaro che la brutale manipolazione ideologica nazista della parola e del concetto ha reso il cammino di chiunque voglia ripercorrerli estremamente arduo. Tuttavia Edoardo Castagna (autore dell’esplosivo
Ariani. Origine, storia e redenzione di un mito che ha insanguinato il Novecento, Medusa, pagine 108, euro 12,50) riesce a orientarsi nell’intrico di polemiche sulle quali si sono stratificati, magari in polemica tra loro, i pareri di linguisti, glottologi, archeologi, antropologi e genetisti. Fare ordine in un tale ginepraio era impresa quasi disperata. E, se già Poliakov lamentava al riguardo la «tirannia dei linguisti», è giusto ribattere mettendo in guardia dalla «tirannia degli archeologi». Per fortuna, non più ormai da quella di antropologi e di biologi: se c’è una cosa morta e sepolta, è che quella “ariana” sia una “razza”. Eppure non va dimenticato che il razzismo, quest’orrore che ha sconvolto il Novecento, non è per nulla nato da un’idea “geniale”, ancorché mostruosa, di Adolf Hitler. Macché. L’agitatore austro-bavarese era senza dubbio abile, ma nell’àmbito della demagogia e della propaganda. Per il resto, le sue idee erano un pietoso banale bric-à-brac di luoghi comuni dipendenti però – attenzione! – da fonti che per tutto l’Ottocento si erano considerate scientificamente attendibili: e non era pertanto strano che fossero perse sul serio. Hitler era il divulgatore di una scienza falsa, ma al suo tempo considerata seria ed attendibile: brandelli della quale sopravvivono ancor oggi, magari nascosti tra le pieghe della legislazione di certi States nordamericani o di certi Paesi scandinavi. E allora Castagna ha buon gioco nel ribadire, limpidamente, che quel che fa un indoeuropeo non è la dolicocefalia né la glaucopsia, non i capelli biondi né un certo gruppo sanguigno, ma semplicemente l’appartenenza a un gruppo di idiomi collegati tra loro e sviluppatisi nel corso del II millennio a.C. fino a coprire un’immensa area macrocontinentale tra il subcontinente indiano, la penisola iberica e le isole britanniche. È chiaro che nel concreto sviluppo storico delle civiltà questi idiomi hanno subìto scambi, apporti e contaminazioni: ma non è meno chiaro che, fondamentalmente, attraverso la struttura dei linguaggi indoeuropei sia possibile risalire all’universo immaginario, ai quadri mentali, alla gerarchizzazione dei concetti e delle immagini, insomma a tutto quel che qualifica basilarmente una cultura. Può darsi che Castagna esageri nel qualificare «screditato» Georges Dumézil oppure nel liquidare come un antiquato e confusionario passatista Giovanni Semerano. Ma le sue osservazioni sul rapporto tra lingue indoeuropee e sviluppo della storia del nostro continente sono acute, intelligenti e degne di molta attenzione. Chiamare in causa le dinamiche dell’emergenza delle élites e delle funzioni di comando nelle culture indoeuropee per concluderne sottolineando che la caotica India è riuscita nonostante tutto a costruirsi un sistema democratico, mentre la Cina ne è strutturalmente lontanissima, e sostenere che idea di progresso e volontà di potenza si colleghino con le lingue “ariane”, possono aver l’aspetto di boutades provocatorie di stampo giornalistico, ma non lo sono. O non sono soltanto quello.