Agorà

Inchiesta. Il Pallone dei ragazzi italiani

Massimiliano Castellani lunedì 26 gennaio 2015
Il refrain non cambia: «Uno su mille ce la fa». canta Gianni Morandi, e questa è anche la spietata realtà di quanti ragazzi, nati e cresciuti nei vivai italiani, riescono ad affacciarsi nel fatato mondo del calcio professionistico. Un sogno condiviso dai 710mila tesserati delle attività giovanili (ragazzi in età tra i 5 e i 16 anni) delle oltre 9mila società appartenenti alla Figc Settore Giovanile Scolastico del neopresidente Vito Tisci. È dunque bene allenare in fretta le menti, fin dai Pulcini, all’idea che il calcio professionistico rappresenta la straordinarietà. L’istantanea più comune è quel fermo immagine del docufilm Zero a Zero di Paolo Geremei, sui tre classe 1977, ex promesse dell’As Roma: il “fenomeno” Daniele Rossi (il “10”degli Allievi giallorossi prima di Francesco Totti) e i forti portieri Andrea Giulii Capponi e Marco Caterini (Gigi Buffon era la sua riserva nella Nazionale Under 15). Tutti e tre sembravano avviati a una carriera da protagonisti assoluti nella Roma del terzo millennio, invece, complice infortuni di vario genere o inciampi fisiologici, il sogno è sfumato in fretta e adesso le loro storie di “giocatori tristi che non hanno vinto mai” si raccontano solo dentro qualche bar sport della capitale. La memoria di cuoio, è piena, da nord a sud, di storie come queste. E il club degli illusi e dei delusi si è allargato, specie nell’ultimo decennio, in cui per il talento italiano le porte della prima squadra professionistica sono sempre più sbarrate.Ultimi in Europa per il lancio di giovani da vivaio in Serie A: neppure il 10% degli attuali tesserati è un “prodotto” del club di appartenenza. La Primavera dell’Inter di Andrea Stramaccioni nel 2012 vinse la Champions League giovanile battendo in finale l’Ajax. Ebbene, di quell’Inter solo un ragazzo (il ghanese Isaac Donkor) è arrivato a debuttare in prima squadra, mentre il club olandese ne ha lanciati 5 in pianta stabile nell’Eredivisie. Massimiliano Ammendola, centrocampista classe 1990, non dimenticherà mai quel Napoli-Novara del 21 aprile 2012, quando Walter Mazzarri (allora tecnico dei partenopei) richiamò in panchina Marek Hamsik per farlo esordire in Serie A. Ammendola ha danzato con i “grandi” una sola partita, poi l’oblio del nemo profeta in patria, e solo grazie all’attenzione del suo procuratore, Alessandro Magni, è riuscito a restare nella massima serie, ma quella bulgara (al Botev Vraca) e paraguayana (con il Club Sol de América) per poi fare mesto ritorno a casa. Ora gioca nei dilettanti della Puteolana. «La selezione dei talenti da noi troppo spesso non si fa su base meritocratica e a dettare legge sono sempre i soliti procuratori “amici degli amici dei presidenti” che piazzano sistematicamente i loro “protetti”», denuncia Magni.La piaga, tutta italiana, della carenza di meritocrazia, a quanto pare non risparmia neppure il calcio. Ma ogni tanto dal buio di quello che, dopo la debalce Mondiale della Nazionale a Brasile 2014, è stato definito «l’anno zero del nostro calcio», qualche “favola” si legge ancora. È il caso di Rolando Mandragora, 17enne centrocampista cresciuto nella fucina napoletana della scuola calcio Mariano Keller. A 13 anni viene provinato da Juventus, Roma, Palermo e Atalanta, ma lo scartano per «mancato sviluppo fisico». Ma sull’ex “brutto anatroccolo” scommette il Genoa e con coraggio - altra merce che scarseggia tra dirigenti e i tecnici nostrani - Giampiero Gasperini lo fa entrare dal primo minuto nel match di campionato contro la Juventus, dandogli il compito ingrato, ma perfettamente eseguito, di stoppare il bimbo d’oro bianconero, Paul Pogba. Scontro diretto tra talenti puri. «Talento è colui che ha innati i tempi di gioco, perché innato è il talento puro che non si crea e i dirigenti bravi e preparati hanno la pazienza di aspettare che questo si manifesti», è un momento della lezione che Jean-Christophe Cataliotti - uno dei 1.500 agenti Fifa che Blatter intende far sparire dal 1° aprile -, tiene a Reggio Emilia nel suo “Football Workshop”. «La selezione dei potenziali talenti ormai è sempre più speculare e mirata alla vittoria dei titoli – continua Cataliotti –. I grandi club la fanno partire dal campionato Giovanissimi nazionali: ragazzini di 12-13 anni, per certi ruoli come il difensore o l’attaccante centrale sono scelti solo per le loro caratteristiche fisiche che devono essere superiori rispetto alla media. I dirigenti addirittura arrivano a convocare i genitori, ma per verificare se dalla loro corporatura il figlio potrà avere margini importanti di crescita fisico-atletica».Il calciatore in erba del 2015 che possiede solo doti tecniche, ma ha un fisico in “costruzione”, rischia di essere relegato alla panchina. Così mentre si registra un aumento generale di calciatori dell’1,8% (nel 2014: 1 milione e 362mila tesserati Figc dei quali 836mila sono Under), di contro si impenna in maniera preoccupante il numero degli scarpini precocemente appesi. Una delle problematiche che Cataliotti e il mental coach degli sportivi, Livio Sgarbi, affrontano nel loro Manuale per la gestione dei giovani calciatori (Mursia).«Troppi stranieri anche nei settori giovanili (in Serie A sono circa il 54%) penalizzano i nostri ragazzi italiani», è l’allarme populista che crea pregiudizi infondati anche verso l’ultima generazione, sempre più numerosa dei “G2”: i ragazzi che giocano e studiano in Italia figli di stranieri. Non tutti sono dei Mario Balotelli, ma quando una piccola società di provincia come il Lumezzane ha la fortuna di crescerlo in casa ecco che il gioco si fa interessante, anche dal punto di vista economico. Il “contributo di solidarietà”, i cinque anni di valorizzazione - dagli 11 ai 16 anni - di Balotelli, al club bresciano ha fruttato 700mila euro, proventi che derivano dai trasferimenti di “SuperMario” dall’Inter al Manchester City, poi al Milan e, infine, al Liverpool. E questo “bonus di interessi”, garantito dalla normativa Fifa, per il Lumezzane si estinguerà solo quando Balotelli non cambierà più casacca. C’è chi, invece, nasce e cresce fedele alla maglia nei secoli. Rarità, come il capitano silenzioso dell’Atalanta, Giampaolo Bellini, che è entrato nella premiata “cantera” orobica a sei anni, nel 1986, e quasi un ventennio dopo veste ancora di nerazzurro. L’Atalanta è un’eccezione e un’eccellenza, il suo settore giovanile beneficia delle cure del saggio responsabile Mino Favini, classe 1936.Il “maestro” di Zingonia è l’artefice dell’unico club italiano entrato nella top ten europea - Milan, Inter, Roma e Empoli sono solo tra le prime 50 - per aver portato al professionismo 22 ragazzi del suo vivaio (una dozzina di squadre, oltre 200 giovani tesserati, investimenti per 3,5 milioni di euro l’anno). «Le squadre migliori a livello giovanile non sono quelle che vincono di più, ma quelle in cui hai dato un’impronta tale che consentirà alla maggior parte del gruppo di arrivare al professionismo», è il primo comandamento di Favini, che avverte tutto il “pianeta calcio giovanile”: «Bisogna educare i ragazzi a tenere il “doppio passo”, scuola e calcio. Ma il compito più arduo è diventato educare i genitori. Molti di loro se ne infischiano se il figlio va male a scuola, l’importante è che giochi, che sfondi e guadagni tanti soldi. Non hanno capito, invece, che dobbiamo investire sempre di più sulla formazione culturale di questi ragazzi». Speriamo che diano retta al miglior uomo di campo che abbiamo, il cui motto è: «Saper ascoltare, è molto più importante che parlare».