Per un senese spiegare ad altri il Palio è come descrivere l’amore per la mamma: impossibile! Anche quando tutto fosse narrato con perfetta rispondenza dei fatti, il mistero, la bellezza di una festa, che non è festa pacifica, ma la sottile tragedia della vita con i suoi trionfi e le sue incrinature. Perciò l’essenza dei quattro giorni di fuoco, non sarebbe manco sbucciata dalla sua sopraccarta. Vincere non è così importante, anzi è vitale, come in ogni competizione, ma il Palio non è una competizione. Ciò che conta in questa ritualità e nella sublimazione dei gesti è il primeggiare del simbolo della propria contrada e del popolo a cui s’appartiene. L’onore, la fierezza, il portamento, la storia, le tradizioni contano più della vittoria. Chi non trionfa può gioire come chi ha vinto il Palio, perché magari la contrada avversa è scesa nell’ombra opaca del silenzio; ha perso l’occasione propizia di signoreggiare la Piazza del Campo ed appendere il Palio, l’antica stoffa pregiata degli imperatori, nelle gloriose stanze accanto alla chiesa del rione. Santa Caterina da Siena (1347-1380) incitava a correre il Palio, ma in senso spirituale, come battaglia interiore che l’anima deve sostenere per la salvezza eterna. E san Bernardino predicava nel Campo di Siena in mezzo a quella clamorosa ed incruenta battaglia, perché ogni azione del vivere e del morire fosse conforme a Dio, nel torneo impetuoso della vita. L’orrore dei puristi per il Palio è massimo. Il sacro e il profano si fondono in una pericolosa mescolanza, sembra che tutto sia in mano a Malatasca come chiamava il diavolo santa Caterina. All’incontrario esatto, cari fratelli! La Madonna è venerata con l’effige santa nel Palio del 2 luglio e del 16 agosto e poi quel canto struggente nella basilica di Provenzano e in duomo è un miracolo di fede atavica. Maria mater gratiae, mater misericordiae . È il canto che sgorga dal cuore del popolo che gioisce e fa venire la pelle d’oca anche alla contrada della Torre, irriducibile e storica nemica della nobil contrada dell’Oca. Maria Santissima benedice il popolo festante in una tale e contagiosa esultanza che i turisti restano senza fiato a vedere il duomo di Siena, un gioiello di raffinata bellezza, spalancato di colpo da un’irruenta fiumana di popolo che strepita con bandiere, canti e tamburi in un paradiso anticipato di baci e abbracci fraterni. O che volete di più, castigati cerimonieri di una fede, altrimenti esangue!? Siena è questa, per grazia di Dio e per una febbre impalpabile che la scuote da sempre. È una terra dove la santità e lo sberleffo s’accompagnano; ma quel canto filiale, commosso, del rito ambrosiano, bellissimo, è l’azzardo singolare di un popolo unico che fa del Palio un ponte sottile tra cielo e terra, là dove le anime più ardimentose si aggrappano per salire alla maestà di Dio. Dunque il Palio non è moderno, non è industria del turismo, non è sport, né folklore, ma poesia che si scontra con la concretezza delle passioni violente, frutto dell’antico retaggio, dove la morte era così prossima alla vita che il suo colore era una sublime giostra di colori. Il Palio dei cavalli. Il Palio delle contrade. Il palio dei fantini (fantolini, cioè bambini, dei ragazzini). Per tre motivi – e tremila – si corre un Palio. Per tre giri ci si scalmana di voce, si piange di gioia, si ingiuria l’avversario, si mangia la polvere, si sparisce quatti quatti nei vicoli malinconiosi e superbi, mentre la romba della festa cresce a dismisura, come atto liberatorio. Rammento ai senesi, ed informo i lettori, che don Martino Ceccuzzi – poeta, al secolo Idillio dell’Era – e don Bruno Ancilli – musico – sono due sacerdoti che hanno improntato della loro fede e con schiettezza del popolo cristiano l’inno che riecheggia per tutto il corteo storico: «Squilli la Fé». Le chiarine d’argento sopravanzano gli ottoni, la musica e le parole che ogni fedelissimo del Palio conosce a memoria, pervadono ogni spicchio di cielo che subito tende l’orecchio ad ascoltare il fremito commovente di quest’umanità che si inebria di colori attivi e simbolici e di gloria Patria. Il Palio è esclusione impietosa: follia lucida. Non è trapiantabile seme in altre terre che non siano di cenere e d’oro: le crete che profumano di ascenzio ed il tufo etrusco. Tutto il mondo che brulica oltre le mura di Siena, questa piccola Gerusalemme sospesa fuor di Toscana, sprofonda nell’oblio quando il mortaretto, in un tonfo da paura, bombarda a salve e rintrona la città e chiama i cavalli al canapo, alla mossa. L’individualità più sofisticata e scontrosa trova spazio e pace nei meandri del Palio; in un panno di seta stretto e lungo che il pittore deve tentare con la sciabola dei colori di figurare al meglio i motivi delle diciassette Contrade, che a turno ed a sorte allagano il cuore della festa. Ho dipinto un Palio 1993, anzi due, uno visibile ed uno invisibile e assicuro che per un senese, ma per ogni artista coscienzioso il Palio ti rasciuga il sangue, ti da la mattia, ti fa, più di sempre, lunatico e azzardoso e classico e tremebondo, perché non è roba tua. La Madonna ed il popolo sono i committenti. Eppure anche il Palio, che rasenta il sortilegio e la magia, è incrinato da una impercettibile mestizia: è l’inquietudine dei nostri tempi, sublime e pericolosa ricerca nelle cose di quaggiù dell’Assoluta Bellezza, la festa senza fine. Per quanto sia grande la suggestione e l’ardimento, la vanità celebrata dei senesi, che i fiorentini mal sopportano con Dante, è anch’essa inchiavardata alla presente stagione, fradicia di morte e d’illusioni. Il Palio no, non illude, purifica con sconfitte cocenti, con trionfi e baldorie fragorose e non ammette mezze misure e ricorsi ad una logica che non sia già anticipo di vittoria mistica sui limiti, oltre la cortina fumosa di un mondo che è pizzicato dalla tarantola, dalla frenesia ridicola del Male: insensato albergo di ogni ferocia che per accidia non vuole correre il Palio alla maniera di Santa Caterina. Il Palio non è moderno, non è industria del turismo, né folklore, ma poesia che si scontra con la concretezza delle passioni violente, frutto dell’antico retaggio, dove la morte era così prossima alla vita che il suo colore era una sublime giostra di colori