Agorà

INTERVISTA. Il no di Rosy alla 'ndrangheta

Laura Badaracchi martedì 13 novembre 2012
Alcuni fatti, nel corso di una vita, assumono la funzione di spartiacque. C’è un "prima" e un "dopo" rispetto a quell’evento preciso che tocca personalmente ed entra nella carne, catalizzatore di emozioni forti e scelte dirimenti. Per la quarantenne Rosy Canale uno di questi fatti è successo nel 2004, nella sua Calabria: dopo numerose minacce, subisce un violento pestaggio per non aver accettato che la discoteca da lei gestita diventasse una piazza di spaccio. Tutti i denti rotti, con un colpo che arriva in faccia tramite il calcio di una pistola e la getta a terra. Dove, a pedate, le rompono «la mano destra, il braccio destro, tre costole, il femore». Viva per miracolo, si trasferisce a Roma con la figlia Micol per elaborare il trauma, il dolore e i segni che hanno lasciato sul suo corpo. Ma non riesce a dimenticare. «La prima volta che ho visto un morto ammazzato avevo quindici anni. O forse sedici», racconta. La scia di sangue arriva fino a Duisburg, il 15 agosto 2007 in Germania: avviene una strage - sei morti - per un regolamento di conti scatenato da una faida annosa tra due famiglie ’ndranghetiste originarie di San Luca, sul versante orientale dell’Aspromonte.«Quel fatto sanguinoso mi ha interpellato personalmente: non potevo restare indifferente, con le mani in mano», ricorda Rosy, autrice di una corposa autobiografia a quattro mani con la giornalista Emanuela Zuccalà, che dedica il volume a suo padre Michele, dal 1969 al ’76 membro della prima Commissione parlamentare antimafia. Ma La mia ’ndrangheta (Paoline, pp. 432, euro 19,90) racconta non solo la sua storia. Perché dopo la mattanza in terra tedesca la donna decide con coraggio di tornare a San Luca - soprannominato «la mamma della ’ndrangheta» - e avvia un corso d’arte nella scuola media del paese, mettendo a disposizione i suoi studi presso la bottega di Pietro Garinei, l’Accademia di arte drammatica della Calabria, l’Actor’s Studio di New York. «I figli parlavano alle madri dei lavori realizzati a scuola e loro, incuriosite, hanno deciso di incontrarmi. Così ho pensato di fondare un’associazione». Così nel gennaio del 2008 ben 400 donne del paese sottoscrivono la nascita del "Movimento Donne di San Luca e della Locride", con l’obiettivo di creare opportunità lavorative e culturali in un territorio ad altissima penetrazione mafiosa, «facendo prevenzione concretamente, non l’antimafia delle bandiere e delle chiacchiere. Anche se veniamo derise e criticate o addirittura ignorate», osserva Rosy, presidente del Movimento. Le aderenti rappresentano il 10% della popolazione locale, in un paese che conta circa 4mila abitanti. Un successo corale, tutto al femminile. E femminile è il punto di vista di questo libro, che sfida mentalità ataviche per stimolare a un cambiamento, per ripartire dalla formazione delle nuove generazioni. A poco più di un anno dalla sua nascita l’associazione inaugura in un bene confiscato alla mafia - la ex villa del boss Antonio Pelle detto "Gambazza", 1.750 metri quadri a pochi passi dal centro storico di San Luca - una ludoteca attrezzata, frequentata da tanti bambini e anche «dai figli dei morti ammazzati. Non vogliamo aspettare che diventino grandi e si ammazzino a loro volta. Le mogli, le sorelle, le figlie dei boss vogliono aiutare i bambini e i ragazzi a cambiare strada». A turno, le volontarie garantiscono per due volte a settimana l’apertura di un luogo educativo e ricreativo unico nella zona, animando attività culturali e artistiche. Numerose istituzioni avevano promesso risorse per dare continuità alle iniziative previste nella ludoteca.Seminare speranza in un territorio pesantemente segnato dalla criminalità - che richiama Casal di Principe o a Corleone - comporta rischi pesanti: le due autrici sono state minacciate prima ancora della pubblicazione del volume, e una delle due è stata costretta a rifugiarsi all’estero. Eppure Rosy Canale non si arrende. Lei, come le altre sue compagne di viaggio, ha una forte determinazione a impegnarsi: una spinta scaturita da violenze subite, da soprusi imposti e lutti forse non completamente elaborati.