La scrittrice-pastora Marzia Verona. Il «mal di pecore», un mondo lontano che affascina
La pastora-scrittrice e fotografa Marzia Verona
«Che fai tu luna in ciel? Dimmi che fai, silenziosa luna?». Quando si parla di pastori viene alla mente Leopardi, con i suoi primi versi del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Ma anche «Isciacquio, calpestio, dolci romori. Ah, perché non son io co’ miei pastori?», che sono gli ultimi versi di un’altra famosa poesia su questo tema: I pastori di Gabriele D’Annunzio.
Vengono alla mente perché nella testa dei "cittadini" attratti dal fascino della ruralità spesso non ci sono che immagini stereotipate. La realtà dei pastori è ben più concreta, e si colloca lontana sia dalle domande intimiste in stile leopardiano che dalle decadenti aspirazioni bucoliche del Vate. Parlando con Marzia Verona, che ha raccontato i suoi trascorsi di "pastora" in Storie di pascolo vagante (Laterza, pagine 112, euro 14), si scopre, paradossalmente, un mondo che risulta meglio descritto da alcune espressioni evangeliche come: il pastore «dà la vita per le pecore» (Gv 10,11), le conosce, le chiama «una a una» (10, 3). Persino il riferimento al lupo, che «le rapisce e le disperde» (10, 12), è decisamente più calzante e attuale.
Mentre racconta, Marzia controlla le sue 5 capre al pascolo nei pressi di casa. Oggi vive a Cumiana, a 30 chilometri da Torino. Nel 2003, durante gli studi in scienze forestali, seguendo la passione per la fotografia, ha iniziato un lungo percorso di avvicinamento al mondo dei pastori. Quando è diventata la compagna di uno di loro ne ha condiviso la vita per alcuni anni al seguito delle greggi vaganti in Nord Italia. Ora quel tempo è finito, così come quella storia d’amore. Scrive libri sulla pastorizia (ne ha già tre al suo attivo, più una raccolta fotografica: VAI ALLA FOTOGALLERY) e cura un seguitissimo blog sugli stessi temi. Alleva qualche capra perché la passione le è rimasta nel sangue, forse perché è bello conoscerle «una a una»: «Ciascuna a un suo carattere preciso, le sue abitudini», spiega.
Ma di cosa parlano fra loro i pastori?
«Quando si incontrano il più della volte discutono di problemi. Loro dicono che sono passati i tempi delle grandi cantate in compagnia».
Problemi di che tipo?
«Negli ultimi anni il territorio ha avuto un profondo cambiamento, lo stile di vita è lontano dalle reali questioni legate alla terra: la gente non le comprende. Su un giornale locale, qualche giorno fa, ho letto della lite fra un pastore e un automobilista irritato perché le pecore avevano invaso la strada. Ma è impossibile condurre le pecore al pascolo senza attraversare le strade. La gente ha belle idee romantiche sulla vita di campagna, ma basta trovare la strada sporca o fare qualche minuto di fila in coda a un gregge e tutto cambia. Poi ci sono le complessità burocratiche dovute a leggi scritte da persone che non hanno competenze specifiche. Ieri mi ha chiamato un pastore, che nel pascolo in montagna durante l’estate ha perso, come spesso capita, alcune pecore. Mi diceva di essere preoccupato perché doveva andare per uffici a fare la denuncia alla Asl e poi dai carabinieri. Ma perché anche dai carabinieri, diceva, "le pecore non me le hanno mica rubate". Il problema è che mentre sei in coda agli sportelli, quando ti basta una mattina, le pecore restano nel recinto e avrebbero bisogno di mangiare».
Come si perdono le pecore in montagna?
«A volte si allontanano e non si ritrovano. A volte qualche incidente. A volte i lupi...».
Sono tornati i lupi?
«Non ce n’erano fino a una ventina d’anni fa. Ora sono tanti. E sono effettivamente un pericolo. Non solo in alta montagna. E per difendersi dai lupi i pastori vanno incontro a disagi, a maggiori spese e meno redditi».
A causa delle pecore uccise?
«Non tanto per quello, ma per ciò che si deve fare per ridurre il rischio. Oggi, per esempio, si fa in modo che non nascano più agnelli durante la stagione estiva, perché quando la pecora partorisce si allontana dal gregge e diventa vulnerabile. Allora si fanno partorire al ritorno in pianura. In questo modo l’offerta di agnelli da carne cresce per tutti nello stesso periodo e i prezzi si abbassano. La presenza dei lupi richiede spesso una persona in più e l’acquisto di cani come i "pastori maremmani-abruzzesi". Da noi sulle Alpi una volta non c’erano. E i cani richiedono attenzioni e spese, oltre a creare problemi con i turisti, ai quali spesso impediscono il transito su prati e sentieri».
Insomma, fra loro i pastori non parlano di luna e cielo stellato...
«È una dimensione intima che non rientra nei loro discorsi. Io che avevo questa sensibilità ho provato a parlarne, ma era come se dicessi cose scontate. Per loro quello che conta sono le pecore. La loro vita sono le pecore. Quando si faceva un minimo di festa e i racconti diventavano "più epici", si trattava sempre di storie legate alle pecore e alle difficoltà provocate da un’alluvione piuttosto che da una frana. Parlano per ore di pecore. Anche i fatti che accadono nel mondo appartengono a una dimensione lontana quando hai la responsabilità di centinaia di animali».
È la «malattia delle pecore» di cui scrive nel libro?
«La malattia delle pecore è una passione esclusiva. Quello del pastore vagante non è un lavoro, è la vita. Non conta la fatica, le notti sotto la pioggia, il reddito scarso. Non hai mezza giornata libera, ma non è una rinuncia. Se per qualche necessità il pastore si allontana, il suo pensiero è sempre alle pecore. Per questo la nostra società fatica a capire davvero questo mondo».
Il suo libro, però, evidenzia la necessità che anche il pastore diventi un manager.
«In Francia, dove la pastorizia è ancora molto diffusa, l’allevatore si occupa di come valorizzare i prodotti delle sue greggi portate al pascolo dai salariati. Questo consente anche di non restare in balia di pochi commercianti che fanno il bello e il cattivo tempo. E poi servirebbero leggi diverse, scritte da competenti. Oggi per sopravvivere è quasi impossibile restare nella norma. La lana non vale più niente e quando va bene serve a fare isolanti per l’edilizia, ma la tosa, che è un costo, è necessaria al benessere delle pecore. La carne di pecora andrebbe valorizzata. La produzione di formaggi tipici di montagna andrebbe agevolata, ma oggi le leggi la impediscono. Da noi c’è una ricotta stagionata che viene portata a valle avvolta nel fieno, si chiama Sarass del fen, le pratiche europee per ottenere il "dop", ancora senza successo, sono state avviate prima del 2000».
Questo è in contraddizione col desiderio sempre maggiore nelle persone di accostarsi ai prodotti naturali.
«In aperta contraddizione. Si tratta di leggi imposte chiaramente per favorire gli interessi industriali. Io stessa mi sono stupita per il crescendo dei contatti da quando nel 2007 ho aperto il blog per raccontare storie e problemi dei pastori. L’interesse è tanto e anche le fiere e le feste della transumanza stanno avendo un successo crescente».
La transumanza è ancora viva?
«Da noi sulle Alpi certamente. E con la crisi economica è cresciuta perché costa meno condurre le greggi a piedi che farle trasportare in camion».