Agorà

Incontro col regista. Il mite Olmi ora provoca: «Sto solo con gli ultimi»

Giacomo Vallati mercoledì 5 ottobre 2011
Il nuovo film di Ermanno Olmi, Il Vil­laggio di cartone (passato a Venezia) che arriva in 80 sale il 7 ottobre, inizia con un lungo braccio meccanico che stac­ca il Crocifisso dal soffitto di una chiesa. «E lo pone in terra, come uno sconfitto». Un avvio che genera inevitabili due do­mande: perché quella chiesa spogliata? perché quel Crocifisso in terra? «Questo non è un film realistico – risponde Olmi ai giornalisti, incontrati a Roma – È un a­pologo. E quella chiesa è un simbolo: rap­presenta la Chiesa che spogliata di tutto torna ad essere la Casa di Dio. Il luogo do­ve possano rifugiarsi i miseri e i derelitti». La pellicola, interpretata da Michael Lond­sdale, Rutger Hauer, Alessandro Haber e Massimo De Francovich, tocca i temi del­l’immigrazione e della solidarietà, con un prete cui viene chiusa la parrocchia e che, nella sua chiesa ormai spoglia, si ritrova ad accogliere un gruppo di clandestini dal­l’Africa. Scomodo e problematico, destinato a far discutere, il film di Olmi provoca. E i gior­nalisti provocano lui, chiedendogli: la sua è una denuncia contro la gerarchia? «Quando Cristo ordinò a Pietro di fonda­re la Chiesa non si riferiva ad un luogo fi­sico. Ma alla comunità dei credenti. Al centro della chiesa di Cristo infatti c’è l’uo­mo » spiega Olmi. Il regista poi aggiunge: «Cristo è la più grande novità della storia, ma mi rendo conto che è irraggiungibile. Eppure non riesco a togliermi quel Cro­cifisso dagli occhi. È un’ossessione che bi­sogna accettare. Come quella dell’inna­morato. Quest’ultimo prima trasforma la sua ossessione in un’icona, poi la tradu­ce in azione, verbo: amare. Un verbo che libera». Poi, Olmi spinge sull’acceleratore della provocazione: «In giro ci sono tante 'chie­se', religiose, culturali e laiche, che ser­vono a far sentire molti protetti, rassicu­rati. Cos’altro è, per esempio, la Borsa, se non una chiesa idolatra dove il denaro è stato elevato a dio? E i partiti politici? Non sono forse chiese idolatriche anche loro? Ecco: per essere davvero liberi noi do­vremmo liberarci di tutte queste 'chiese' e del loro falso senso di protezione. E a­vere, al contrario, il coraggio di compro­metterci in prima persona». Come? «Al­l’immigrato affamato non basta più indi­care la strada della Caritas. Bisogna invi­tarlo a casa propria. E non ha senso adot­tare a distanza i bambini africani, se poi, quando quei bambini arrivano da noi, li ricacciamo indietro. Noi non dovremmo aiutare qualcuno solo perché ha bisogno. Ma perché è nostro amico. "Io vi ho chia­mati amici", dice Gesù». Solo questa coerenza dona vera libertà, afferma Olmi. «Una libertà che costa, na­turalmente. E che spesso il credente pa­ga con la solitudine».E nel cinema italia­no Olmi s’è mai sentito solo? «Quando il cinema era tutto di sinistra, anzi appar­teneva tutto alla sinistra, io ero felice­mente contento di non appartenere a nessuno. Ecco: è stato allora, che mi so­no sentito solo». Fatale chiedere, all’autore d’un film che, pure simbolico, è immerso nell’attualità più concreta, un parere sulla realtà del no­stro Paese. «Siamo alla vigilia di un gran­de cambiamento. Ci siamo arrivati in ri­tardo, distratti dalla corsa alla ricchezza. Ora io sono convinto che il Cristianesimo sia la più grande novità nella storia del mondo. E in Italia c’è un cattolicesimo ben radicato; che certe volte, però, dimentica di essere cristiano. Infatti, come le merci si muovono ovunque a causa del merca­to globale, oggi sono i popoli, a muover­si. Ecco perché non riusciremo mai a fer­marli: sarebbe stupido solo pensarlo. E al­lora, da cristiani, dovremmo capire quan­to gli altri popoli possano rappresentare, per tutti, una nuova idea di civiltà». Anche sul tema della ricchezza, il regista non usa mezze misure: «Essere stra-ric­chi, sopra un certo livello, è un crimine. Perché toglie ricchezza agli altri».