«La letteratura e in generale l’immaginazione creatrice esistono su un piano intermedio fra il vero e il falso. In tal modo, possono parlarci di verità altrimenti inesprimibili, come la bellezza del mondo e i dissidi spirituali dell’uomo». Fra un sorso di buon vino e un aneddoto personale presto incalzato da una citazione colta, pare spesso meditare ad alta voce Michel Le Bris, personaggio fra i più originali ed eclettici della cultura francese, refrattario per scelta ad ogni etichetta: al contempo, filosofo e romanziere, biografo di Stevenson ed esperto del Romanticismo, portavoce
engagé della «letteratura-mondo» e direttore nella Bretagna natale della fortunata kermesse non solo letteraria intitolata «Sorprendenti viaggiatori». Le Bris, di cui a giorni esce in Italia il romanzo
La bellezza del mondo (Fazi), già molto apprezzato in Francia, sarà il 18 settembre in Friuli, ospite del festival Pordenonelegge. Amico di Jean-Paul Sartre, con cui fondò il quotidiano
Liberation, Le Bris è miracolosamente sopravvissuto al terremoto che il 12 gennaio scorso sconvolse Haiti, dove si trovava per motivi di lavoro.
La bellezza del mondo riscrive i destini ben reali di Martin e Osa Johnson, la coppia di avventurieri statunitensi che un secolo fa, con documentari pionieristici, fece scoprire l’Africa selvaggia all’America. Perché riproporre quest’epopea?«Ben prima della Grande guerra, i viaggi nei mari del Sud di Gauguin, Stevenson, London, Melville, così come la scoperta dell’arte africana, suscitarono in Occidente domande decisive: se i selvaggi hanno una tale capacità di creare bellezza, in quale zona dello spirito umano risiede questa capacità? In altri termini, può ancora valere l’assunto occidentale che associa questa capacità a un accumulo di cultura o di padronanza tecnica? Per l’Occidente fu una rivoluzione. La percezione del selvaggio cambia e l’Africa giocherà questo ruolo di apertura, in America ancor più che in Europa. In fondo, nella storia dei Johnson ciò che m’interessava è proprio questa rivoluzione, quest’apertura verso l’altro, sempre d’attualità. E, naturalmente, il connesso bisogno di chiedersi di continuo cos’è la bellezza».
Martin Johnson fu un seguace di London, un po’ come lei è partito come biografo sulle tracce di Stevenson. Nei grandi narratori anglosassoni d’avventura gli abissi del mondo dialogano con quelli interiori. Una ragione del successo di questi autori?«Sì, l’autentica forza di questi grandi autori risiede nell’associare avventure fisiche e ricerca spirituale. Il mondo esteriore e interiore si compenetrano di continuo. L’avventura umana consiste nel ritrovare la luce perduta all’interno del caos mondano, il che è evidentemente un tema d’ispirazione religiosa. In Melville non si sta semplicemente cacciando una balena. Per Conrad il discorso è simile. Le peripezie acquistano senso solo grazie a continue risonanze interiori. Anche per questo ho sempre amato Stevenson».
La sete o il bisogno d’avventura può dunque essere una porta privilegiata verso la spiritualità?«Direi semplicemente che molti dei più grandi scrittori d’avventura sono stati ossessionati da una domanda: di fronte alla forza e bellezza del mondo, almeno se lo si guarda in profondità, come evitare di restare schiacciati e, al contrario, riuscire a far nascere da tutto ciò una capacità creatrice? Una risposta possibile consiste nel pensare che non siamo di questo mondo».
Lei sembra parafrasare il Vangelo di Giovanni…«No. Semplicemente, a pensarlo sono anche tanti scrittori fra i più grandi. Non siamo di questo mondo perché c’è in noi un’altra potenza rispetto a quella del mondo. Mi riferisco al potere plastico dell’immaginazione, in opposizione al potere primordiale del mondo. Nell’arte, in generale, occorre tentare di esprimere questo gioco di forze. Per me sta qui il nucleo dell’idea d’immaginazione creatrice. Proprio in questa capacità di dare un volto a ciò che nel mondo resta sconosciuto. Non dimentichiamo che un tempo il termine "anima" era sinonimo d’immaginazione».
Avventura e senso dell’ineffabile sono compagni di viaggio inseparabili?«Posso esprimermi solo in modo molto personale. Ebbene, più che le risposte, ciò che m’interessa davvero è l’apertura al mistero. Quello della nostra presenza, della lingua, della parola. Certamente, occorre cercare le risposte, ma a condizione di non perdere il senso del mistero. Appartengo a una generazione per la quale, almeno in Francia, era quasi impensabile non appartenere a una qualche scuola: marxisti, levistraussiani, discepoli di Foucault, di Barthes e così via. Questa generazione aveva le sue macchine concettuali per rispondere a tutto, a condizione di non porsi più domande su nulla. Ma da tempo, ormai, diffido in modo assoluto delle risposte che paiono avere il solo scopo di cancellare le domande».
Con la crisi dei razionalismi totalizzanti, si prepara una nuova primavera per l’immaginazione creativa in Europa e altrove?«Difendo la concezione di una "letteratura-mondo" anche per sottolineare che l’epoca delle ideologie e del formalismo applicati alla letteratura è giunta al capolinea. La letteratura e l’arte anticipano sempre la politica. E in quest’ottica assistiamo oggi a un mondo della creatività in cui anche le periferie economiche producono opere artistiche molto originali. Certamente il romanzo occidentale è divenuto una forma universale, ma solo per accogliere contenuti culturalmente ibridi. In India o in Africa, ad esempio, le mitologie locali tornano a nutrire con forza l’immaginazione dei giovani scrittori, sconfessando la presunta profezia di un villaggio globale omogeneo».