Teatro. Claudio Longhi: «Il mio Piccolo sarà la factory degli artisti»
Il 55enne nuovo direttore generale del Piccolo Teatro di Milano, Claudio Longhi
Guidare il più importante teatro italiano ai tempi della pandemia, con le radici nel passato ma guardando nettamente al futuro. È questo il difficile compito che dal momento del suo insediamento un anno fa si trova ad affrontare Claudio Longhi, direttore generale del Piccolo Teatro di Milano, cui spetta il compito di dare un nuovo indirizzo al teatro sino al 2024, puntando sui giovani e sulla nuova drammaturgia. Italianista, formatosi alla scuola di Ronconi, già direttore di Emilia Romagna Teatri, il 55enne Longhi si è trovato a smaltire una serie di spettacoli saltati causa Covid ed ora si trova a presentare la sua vera prima stagione. Il 2022 vedrà 8 titoli firmati dal Piccolo a partire da M Il figlio del secolo dal romanzo di Antonio Scurati sull’ascesa di Mussolini, diretto da Massimo Popolizio dal 25 gennaio, e 11 ospitalità oltre ai festeggiamenti per i 100 anni dalla nascita e i 25 dalla morte di Giorgio Strehler un festival a maggio.
Direttore Longhi, quanto è difficile dirigere un teatro come il Piccolo ai tempi della pandemia?
Quando mi sono insediato il primo dicembre dell’anno scorso le attività erano già ferme. Abbiamo cercato in quei primissimi mesi di mantenere comunque vivo il teatro. Naturalmente insediarsi nel mezzo di una pandemia ha significato da un lato farsi carico di problematiche artistiche, dall’altro di situazioni pesanti sul piano della gestione della struttura dei dipendenti, con tutte le precarietà, le incertezze, le paure. Adesso si sta progressivamente svuotando il carico di spettacoli che erano rimasti in attesa e stanno maturando con maggiore evidenza le scelte programmate da me.
Il motto resta quello di Paolo Grassi “un teatro d’arte per tutti”, ma con molte novità.
Questo è un anno sicuramente particolare per il Piccolo Teatro di Milano, perché ricorrono i 100 anni della nascita di Strehler che ci ha lasciato, soprattutto l’idea di un teatro pubblico. La minaccia della pandemia ha fatto sorgere tanti dubbi, ma la mia convinzione è sempre stata che il teatro non avrebbe avuto problemi nel superare l’esperienza pandemica. Quello che veramente è a rischio è una certa idea di teatro pubblico che ha fortemente a che vedere con un sistema valoriale che si incarna nella cultura europea.
Quali modelli continuerà a seguire?
C’è un’idea europea di collegamento del teatro alla cultura e alla società, un teatro di servizio. Il rapporto con una tradizione è fondamentale, non per rimanere prigionieri di quel sistema di valori, ma per usarlo come una cartina di tornasole per leggere l’oggi. Credo che sia importante muoversi su questo crinale di orgogliosa rivendicazione di principi per questo teatro d’arte per tutti, dall’altra parte anche però con l’occhio attento ai giovani.
Che rapporto ha lei con i giovani?
Nella mia vita, come docente universitario e teatrante, mi sono dedicato al rapporto con le scuole e alla relazione fra teatro e universo della formazione. Tutto iniziò quando cominciai a lavorare con Ronconi nel ’93 come assistente alla drammaturgia e alla regia per Quer pasticciaccio brutto de via MerulanaLuca mi affidò subito il progetto della promozione delle scuole dello spettacolo. Credo che un altro degli enormi problemi di oggi sia la difficoltà di incasellare la formazione teatrale all’interno del corso degli studi dei giovani. È tutto affidato alla dimensione volontaristica degli insegnanti quando tutti i grandi maestri della pedagogia hanno teorizzato l’importanza nel teatro come passaggio nella formazione delle persone. Io credo che fra i maggiori e- sperti di pedagogia in Occidente ci siano stati i Gesuiti e i Gesuiti ce l’avevano chiarissima l’importanza del teatro nella formazione.
Come attirare nuovi spettatori nell’era dei social?
Per un verso si deve serenamente accettare la totale inattualità del teatro: il teatro è arte della relazione in presenza e questo è fortemente fuori dal tempo. Noi viviamo nel mondo del cinema consumato sullo schermo del computer, siamo abituati a un’arte che ti viene addosso. Il teatro è un’arte lenta che, come diceva Eimuntas Nekrosius «è un antidoto alla velocità del presente». Poi dobbiamo fare i conti col fatto che i nostri sistemi percettivi sono cambiati, che le nostre soglie di attenzione sono cambiate, che il modo in cui reagiamo alla contemporaneità è diverso. Dobbiamo cercare di capire come quell’inattualità dialoga con quello che sta intorno. Il problema fondamentale non è tanto la sopravvivenza del teatro quanto la sopravvivenza della comunità. L’esperienza del lockdown ci ha fatto capire quanto sia un bisogno quello di trovarsi insieme, di riflettere insieme, di passare attraverso il corpo per capire le cose.
Quali sono le nuove linee guida della stagione del Piccolo?
In primo piano c’è “la” storia con il suo impressionante carico di rovine, per capire chi siamo e da dove veniamo. La storia di ieri, a metà strada tra incubo circense felliniano e impietoso processo ( M Il figlio del secolo - 1919 e 1924), e la cronaca, scabra e puntuale, dell’oggi senza rinunciare alla spinta militante ( Se dicessimo la verità ultimo capitolo in ideale dittico con Falcone e Borsellino. L’eredità dei giusti). Mcredo che sia uno spettacolo stimolante e interessante, perché il nostro Paese è estremamente deficitario nel fare i conti con la propria memoria storica e se guardiamo cosa sta accadendo in Italia, ma non solo, fare i conti con quel mondo comincia ad essere una necessità. Il mosaico delle nuove produzioni conferma l’attenzione per la nuova drammaturgia, per i giovani, per l’apertura internazionale e per la sostenibilità. Si tratta di un arazzo di storie concepite per tentare di stringere la multiforme realtà in cui viviamo dai suoi siderali confini ( De infinito universo di Filippo Ferraresi) alle sue più anguste e oscure prigioni ( Zoo con Lino Guanciale, firmato da Sergio Blanco), dagli abissi insondabili del suo divenire plurisecolare scandito dalle 'fini' ( Uno spettacolo per chi vive in tempi di estinzione della britannica Katie Mitchell) al suo slancio verso un futuro che interroga la vita ( Carbonio di Pier Lorenzo Pisano).
Lei introduce anche l’idea degli artisti residenti e dei “dramaturg” al posto della tradizionale del regista “forte”.
Tra la fine del ’900 e l’inizio del nuovo secolo è cominciato un nuovo modo di rapportarsi alla realtà e di intendere il principio di autorità. Mi è sembrato che fosse necessario rivedere il modello, che il Piccolo Teatro aveva contribuito a fondare, del teatro legato a una forte identità artistica monoliticamente centrata su se stessa, in modo magnifico peraltro, come quelle di Strehler e Ronconi. Credo che quel modello oggi non corrisponda più a una modalità multipla, duttile, decentrata, polifonica. Da qui la scelta, anche guardando all’Europa, di creare una casa degli artisti, una factory di 15 artisti associati che il Piccolo si impegna ad accompagnare negli anni sostenendo loro percorsi artistici e coinvolgendoli nella definizione del programma (fra questi Davide Enia, Stefano Massini, Liv Ferracchiati, Pascal Rambert, Tiago Rodrigues). Affiancato c’è il sistema dei dramaturg, che saranno 4 interni e 2 esterni. Il dramaturg ha un ruolo essenziale, mediare fra l’esperienza teatrale e il pubblico, è la figura che spinge gli artisti a riflettere e stimola la loro creatività. Fondamentale nel restituire l’idea che il teatro è un tassello fondamentale della cultura di un Paese.