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Cinema. Joaquim Phoenix: «Il mio Joker canta il suo amore triste»

Alessandra De Luca martedì 1 ottobre 2024

Joaquim Phoenix nel film "Joker: Folie à Deux"

Quando cinque anni fa Joker di Todd Phillips fu presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, nessuno pensava che avrebbe vinto il Leone d’oro. Ma tutti scommettevano sul fatto che un Oscar al suo protagonista, Joaquim Phoenix, non lo avrebbe tolto nessuno. E così è stato. Nei panni del personaggio DC Comics, già interpretato da Cesar Romero (che lo traghettò dal fumetto al grande schermo), Jack Nicholson, Heath Ledger, l’attore, fino a qualche anno fa celebre per le sue provocazioni ed eccentricità, oggi padre di due figli, ha trasformato uno dei grandi nemici di Batman in una icona pop universale e nel simbolo di tutti gli invisibili emarginati da una società disumana e corrotta. Un successo planetario che non avrebbe avuto un seguito se Phoenix, restio a riprendere panni già indossati, non avesse fatto un sogno che ha poi raccontato al regista: interpretava nuovamente il ruolo di Arthur Fleck, ma questa volta cantava.

Detto, fatto. Joker: Folie à Deux, nuovamente in concorso al Lido quest’anno, ma rimasto questa volta a corto di premi, nelle sale con Warner il 4 ottobre, inizia nel manicomio criminale di Arkham, a Gotham City, dove il protagonista, aspirante cabarettista, è rinchiuso per aver commesso cinque omicidi. In attesa del processo che stabilirà la pena da scontare, la sua avvocatessa chiede venga riconosciuta l’infermità mentale di Arthur/Joker, mentre il viceprocuratore distrettuale Harvey Dent reclama la pena di morte. Quotidianamente umiliato dai carcerieri, Arthur comincia a frequentare le sedute di terapia musicale della prigione e proprio nel coro dei detenuti incontra Lee Quinzel, della quale si innamora perdutamente, con la speranza di essere finalmente visto e ascoltato. Ma la giovane donna, futura Harley Quinn (altro celebre personaggio dei fumetti DC Comics), sembra più interessata all’esuberante Joker che al povero Arthur. Il titolo del film fa riferimento a una rara sindrome psichiatrica nella quale un sintomo di psicosi viene trasmesso da un individuo all’altro. Per esprimere i propri sentimenti Arthur canta brani celebri della musica leggera, e al suo fianco c’è la regina del pop, Lady Gaga, al secolo Stefani Germanotta.

Il conflitto tra chi siamo realmente e l’immagine che la gente ha di noi è stato il punto di partenza per proseguire nell’esplorazione di un personaggio dalla duplice identità. «Ognuno di noi è una persona pubblica e una privata – dice Phoenix, che abbiamo incontrato all’Hotel Cipriani di Venezia – e quella di Arthur/Joker è la versione più estrema di questo concetto. Nel primo film il suo grande desiderio era quello di tutti gli esseri umani: essere accettato e amato. Alla fine ottiene ciò che pensa di volere, l’adorazione delle persone. Ma pensate ai Kiss: si dipingevano la faccia e i fan si innamoravano di loro. Ha funzionato per un bel po’ di tempo, ma che succede quando arrivi a cinquant’anni, non vuoi più essere una rockstar e preferiresti una vita semplice? Le persone innamorate dei personaggi su un palco lo sono anche delle persone dietro la maschera? Nel film da una parte c’è Arthur che non si sente a suo agio nella propria pelle e dall’altra c’è Joker che è invece molto sicuro di sé e ha il controllo di ciò che accade».

Arthur canta, dicevamo, ma Joker: Folie à Deux non è un musical nel senso classico del termine perché non è con la gioia nel cuore che si esce dalla sala dopo aver visto il film. «Abbiamo iniziato dalle canzoni di Frank Sinatra, Sammy Davis Jr. e delle leggende di quegli anni, cercando di imitarli. Successivamente ci siamo accorti che l’emulazione non avrebbe rappresentato realmente Arthur, e in quel momento qualcosa è scattato in me. Stefani aveva detto subito che avremmo dovuto cantare dal vivo, ma all’inizio io non avevo alcuna intenzione di farlo. Poi ho capito quanto sarebbe stata importante la nostra interpretazione di quelle canzoni. Ogni canzone del film è dunque live, e ogni ripresa è una versione diversa della canzone». Continua: «Ci sono le canzoni d’amore di Arthur e canzoni del Joker, molto diverse. Le canzoni di Arthur assomigliano a quelle di un adolescente innamorato, che vuole gridarlo al mondo perché per la prima volta si sente forte. Volevo sentirmi a disagio in quei panni, fuori controllo. Arthur canta per manifestare quello che ha nel cuore, ma è in imbarazzo perché sta vivendo il suo primo amore. Nella vita non canto, neppure sotto la doccia. L’ho fatto venti anni fa in Quando l’amore brucia l’anima (Walk the Line), ma il canto di Johnny Cash è quasi un parlato, mentre questa volta c’era bisogno di una voce diversa, adatta ad Arthur e al suo disagio. Il mio scopo era raggiungere le note e poi spingermi oltre, sentendomi “scomodo”. Stefani invece ha fatto un lavoro opposto: lei, che con la voce può fare ciò che vuole, ha dovuto cantare non in maniera perfetta. Approcciando la musica attraverso il suo personaggio, è andata contro l’istinto di offrire la migliore performance possibile».

La preparazione fisica per il ruolo questa volta è stata più difficile: «Tralascio i dettagli della dieta, non interessano a nessuno, ma penso che a quasi 49 anni non dovrei più mettermi alla prova in questo modo». A Phoenix piace invece dilungarsi sul proprio percorso artistico all’interno dell’industria hollywoodiana. «C’è stato un tempo nella mia carriera in cui volevo fare quello che facevano tutti. Ma una parte di me, sulla quale credo di avere poco controllo, rifiutava di seguire i passi degli altri. Il successo è arrivato anche perché ho ascoltato molto attentamente quei suggerimenti. Per alcuni anni ho seguito un percorso più tradizionale, mi è dispiaciuto aver perso dei ruoli, ma oggi guardandomi indietro ringrazio Dio di non aver interpretato certi personaggi che mi avrebbero costretto a continuare su una certa strada. È importante trovare la propria voce fino al punto in cui non importa più di quello che fanno gli altri o quale sia la cosa giusta. Bisogna cercare quello che ha senso per noi stessi e questa ricerca mi ha guidato sino a qui oggi».