Agorà

VERSO LA PRIMA DELLA SCALA. «Il mio Don Carlo per sperare»

Pierachille Dolfini giovedì 4 dicembre 2008
Tre bambini sempre in scena. «Controfigure di Don Carlo, Elisabetta e Rodrigo per raccontare un mondo perduto, il mondo dell'innocenza che il potere opprime e soffoca». I primi a giudicare se l'idea del regista francese Stéphane Braunschweig regge la prova del palcoscenico saranno i giovani che questa sera applaudiranno in anteprima il Don Carlo di Giuseppe Verdi che domenica aprirà ufficialmente la nuova stagione del Teatro alla Scala. Milleottocento ragazzi con meno di 26 anni che le vicende di Filippo II e dell'Inquisizione le hanno studiate a scuola, ma che questa sera, grazie alla rivoluzione del sovrintendente Lissner che apre le porte della Scala a prezzi popolari alla vigilia del tradizionale Sant'Ambrogio, le vedranno sul palco del primo teatro lirico del mondo raccontate dalla musica di Verdi. «Una musica " spiega Braunschweig, autore anche delle poche ed essenziali scene " capace di disegnare con una grande profondità umana i personaggi e di raccontare una vicenda umana che si svolge sì in un contesto politico molto preciso, la Spagna di Filippo II e dell'Inquisizione, ma che potrebbe essere benissimo trasportata in un'altra epoca ugualmente caratterizzata da un potere politico molto forte: ecco perché, nella scena dell'autodafé e in quella del carcere, ho voluto che il coro indossasse vestiti alla moda degli anni Trenta del Novecento, quando in Spagna c'era il regime di Franco». Braunschweig, però, mette le mani avanti: «Nessuna attualizzazione, sia chiaro, questa è l'unica eccezione, per il resto i costumi sono rigorosamente d'epoca. Ma non ho voluto neanche una ricostruzione storica: sul palco niente chiostro, niente duomo, niente carcere, ma una scenografia astratta, fatta di pochi elementi, a suggerire l'universalità della vicenda, ma per dare al tutto una leggerezza che permetta allo spettatore di concentrarsi sui personaggi» dice il regista, che ha voluto puntare la sua attenzione - viene dal teatro di prosa e in Italia è stato apprezzato per il suo allestimento dello shakespeariano Mercante di Venezia al Piccolo di Milano - sulla recitazione dei cantanti. «Un compito facile " spiega - perché la psicologia dei personaggi, Verdi l'ha messa già nella partitura, nei colori della musica, che io ho voluto tradurre visivamente: il nero, il grigio e il viola, i colori del potere e della morte, ma anche il bianco dell'innocenza e della purezza del costume di Elisabetta». Colori che per Braunschweig identificano due mondi, «quello reale, che è duro, cinico e brutto, al quale si contrappone l'universo di Carlo, Elisabetta e Rodrigo che hanno sogni d'amore, sogni di un mondo migliore che fanno breccia nella realtà come sprazzi di luce, di fantasia, di innocenza e di felicità». E qui, secondo il regista, sta anche la forza di Verdi. «Il musicista critica sì l'oppressione del potere politico e religioso, ma soprattutto la tentazione di fuggire dal mondo, tentazione che gli uomini di ogni epoca provano di fronte alle sconfitte e che lo stesso Verdi aveva provato dopo la morte della moglie e dei figli» racconta Braunschweig, dicendosi contento della scelta del direttore Daniele Gatti di proporre la versione in quattro atti approntata dal compositore nel 1884 proprio per la Scala. «Questa edizione - conclude - si apre e si chiude nel chiostro di San Giusto con colori cupi, gravi e con la voce del frate che ricorda la vanità delle cose del mondo». Un Don Carlo segnato dal pessimismo? «No, dalla vita. L'unico che sogna un mondo migliore, Rodrigo, muore, d'accordo. Ma quanti ai nostri giorni muoiono combattendo per la verità? Direi, piuttosto, un segnale di speranza».