Il personaggio. Lino Guanciale si racconta da Pasolini a "La porta rossa"
L'attore Lino Guanciale, 39 anni, in una scena della fiction di Rai 2 "La porta rossa"
«Di solito nelle fiction non giro più di due serie di seguito, ma nel caso di La porta rossa non mi dispiacerebbe farne una terza perché è un prodotto di qualità e innovativo per la tv italiana. E gli ascolti ci hanno premiato». Sarà il bel volto pulito, nonché la sua bravura, ad avere reso Lino Guanciale uno degli attori italiani più popolari grazie a tante fiction di successo su Rai 1 negli ultimi anni, da Una grande famiglia a Che Dio ci aiuti, L’allieva e Non dirlo al mio capo. Ma è su Rai 2 nella serie mistery La porta rossa che l’attore ha trovato la sua dimensione nel ruolo del tormentato fantasma del commissario Cagliostro, un poliziotto ucciso che indaga sulla propria morte cercando di proteggere la moglie (Gabriella Pession) e la figlia neonata. La seconda serie si è conclusa mercoledì 20 marzo portando a segno una media del 15% di share, un record per la seconda rete Rai. Inoltre l'attore di Avezzano (paese distrutto dal terremoto nel 1915) incontrerà i sopravvissuti dell'Aquila a 10 anni del sisma in L'Aquila 3:32. La generazione dimenticata", in onda il 5 aprile alle 21.20 su Rai 2.
I record, comunque, l’artista abruzzese li sta realizzando nelle ultime due stagioni soprattutto a teatro, da cui è nato dopo aver studiato all’Accademia “Silvio d’Amico”, con due spettacoli corali, La classe operaia va in Paradiso (Premio Ubu e premio dell’Associazione nazionale critici come miglior attore protagonista) e Ragazzi di vita da Pasolini con la regia di Popolizio, tuttora in tournée. Alla vigilia dei 40 anni Guanciale traccia un bilancio della sua carriera.
Lino Guanciale oggi è fra gli attori più richiesti di teatro e tv. Un risultato che arriva da lontano.
Sono contento soprattutto per il teatro, è stato un anno molto fortunato, e felice per il risultato della fiction. La porta rossa ha dato una notevole accellerata agli standard di scrittura e di ripresa. Il pubblico sta metabolizzando nuovi stili televisvi. Sono riuscito a configurami come attore ponte fra specifici diversi. In realtà è un meccanismo che nei Paesi anglosassoni o in Francia, funziona già da tantissimo tempo. Mi fa piacere che si inizi a ragionare così anche da noi. Io ho sempre seguito con grande rigore il percorso teatrale, restando fedele alle progettualità degli inizi, nonostante i tanti lavori cinematografici e televisivi.
La grande popolarità, però, le è arrivata da una fiction familiare come Che Dio ci aiuti.
Il mio primo ruolo da protagonista, l’avvocato del convento di suor Angela, l’ho avuto in Che Dio ci aiuti, della Lux Vide, per cui ho girato pure Non dirlo al mio capo. Devo molto a queste fiction, l’imprinting col grande pubblico televisivo che mi ha seguito anche in altre serie e poi a teatro.
Lei come si è avvicinato al teatro?
Giocavo a rugby, volevo studiare medicina, ma l’ultimo anno del liceo volli togliermi lo sfizio di fare un corso di teatro, perché ero appassionato di cinema e la prosa mi attirava. E ne rimasi stregato. Ad Avezzano il teatro non c’era ancora, lo stavano costruendo, e oggi ho l’onore di dirigerlo. Quindi seguivo gli spettacoli tea- trali in televisione, specie quelli di Eduardo De Filippo, ne subivo il fascino. Ero un adolescente piuttosto solitario, facevo molta fatica ad aprirmi. Sul palcoscenico ho scoperto che mi veniva più semplice costruire un rapporto con chi avevo davanti. Fondamentalmente, è quello che cerco anche oggi.
Anche il rugby è stato una scuola di vita?
Il rugby lo seguo ancora tantissimo. Ho militato nell’Avezzano Rugby dagli 11 ai 21 anni. Ero bravo, sono stato nel giro delle nazionali giovanili fra gli under 16 e gli under 19. Dovevo decidere se diventare professionista, ma avevo capito che la passione della vita era recitare. I valori del rugby sono la lealtà e regole di ingaggio precise e rispettate da tutti. Ed è lo sport in cui, alla fine della partita, gli avversari si incontrano per mangiare e bere insieme. E poi ha una regola meravigliosa, che puoi passare la palla solo indietro, e questo annulla ogni eccesso individualistico. Non puoi fare tutto da solo, devi affidarti agli altri. È uno sport che funziona se si rinuncia tutti a un po’ di sovranità. La stessa regola dovrebbe valere per la democrazia...
Anche il suo modo di fare teatro sociale corrisponde a questa regola? Lo spettacolo funziona se si agisce da squadra. Per me ciò si è declinato in una vera e propria linea di politica culturale perché il teatro è uno strumento di educazione e di socialità impareggiabile, funziona nel momento in cui riesce a fare una parte importante nella vita di un Paese, se si annullano le distanze tra palcoscenico e sala. Il modello del teatro partecipato che abbiamo elaborato con la mia compagnia, che ora è diventata gruppo di riferimento dell’Ert (Emilia Romagna Teatro) parte dall’idea che se tutti recitassero almeno un poco nella vita, si vivrebbe tutti meglio perché recitare è mettersi nei panni degli altri.
Con questo tipo di teatro voi avete coinvolto a Roma e Modena associazioni culturali del luogo, parrocchie, scuole. Che esperienza è stata?
Abbiamo coinvolto tantissime scuole, istituzioni culturali, biblioteche, centri di cultura stranieri, università, mondo del lavoro e del volontariato, centri anziani su progetti dedicati all’Europa e alla Grande guerra. È un modello che a Modena va avanti e che fa del teatro il motore di una rete di relazioni fra soggetti. Il teatro così diventa un polmone per la città. Con il cast di Ragazzi di vita facciamo incontri nelle scuole e io, figlio di una maestra, insegno ai docenti come leggere i testi a voce alta in classe, perché quello che potrebbe essere un momento di supplizio, diventi un momento di enstusiasmo per i ragazzi.
A proposito di Europa come considera l’evolversi della questione delle migrazioni?
Purtroppo è un momento di chiusura individuale e sovranista: io mi auguro che questo momento di contrazione culturale, figlio della crisi e alimentato da forze politiche che fanno leva sulla propaganda della paura, si superi il prima possibile. Preferirei che la nostra classe politica parlasse della recessione e si adoperasse per quello, più che contrabbandare i numeri di una emergenza rifugiati e migranti che, confrontati su scale più obiettive, non raccontano quella situazione lì. È molto triste che si faccia questo gioco sulla pelle di esseri umani che perlopiù vengono da situazioni terrificanti.
Lei è anche testimonial per Unhcr, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati.
Mi è venuto naturale impegnarmi con Unhcr, due anni fa sono stato con loro nei campi profughi siriani in Libano, un’esperienza toccante. Ho appena girato un video per la campagna “Mettiamocelo in testa” dedicata all’istruzione delle bambine rifugiate, le più discriminate, esposte al rischio di essere sfruttate, abusate, date in sposa ancora bambine. E ad aprile vado con Unhcr in Etiopia per studiare come vengono sviluppati i corridoi umanitari, la via sana all’accoglienza, che fa la guerra allo scafismo. Sarebbe la strada da seguire in luogo delle espulsioni o delle ridicole e nefande politiche di blocco navale. http://sostieni.unhcr.it/il-mio-viaggio-con-i-rifugiati/
Gli impegni non le mancano...
Per i prossimi mesi ho due progetti di sapore internazionale con la Rai e il calendario sarà fittissimo per il prossimo paio d’anni. A teatro farò una regia coi neodiplomati della scuola di teatro Jolanda Gazzerro di Ert, e a dicembe debutterà Le nozze di Mattia Scanetti, che mettero in scena con alcuni dei diplomati. Un futuro da regista? Questa esperienza mi sarà molto utile per scoprire cose nuove e crescere.