Novecento. Il martirio di don Bonifacio e i frutti maturi della verità
Don Francesco Bonifacio
Andreino, 16 anni, prese a noleggio una bici per arrivare in tempo alla canonica di don Libero Colomban, a Villanova, e supplicarlo di scappare subito: da gente della OZNA, la polizia segreta di Tito, aveva saputo che era pronta una lista di persone da far sparire e che i primi tre erano proprio don Libero, don Giuseppe Rocco parroco di Grisignana e don Francesco Bonifacio – il primo della lista – cappellano di Villa Gardossi. Era il 10 settembre 1946, la guerra era finita da un anno e mezzo, ma in Istria il terrore imposto dal nuovo regime comunista jugoslavo ammorbava l’aria peggio che in guerra, e pur di scampare all’accusa di “nemico del popolo” la gente aveva imparato a non vedere, non sentire e non sapere nulla. Eppure Andreino, giovane attivo nell’Azione Cattolica e per questo osservato speciale dei nuovi “poteri popolari”, sfidò il pericolo (è morto appena un anno fa a 91 anni, esule a Gorizia). Don Libero si salvò, nascosto in casa da alcuni parrocchiani, e il giorno dopo, 11 settembre, riuscì a incontrare don Bonifacio, che però decise di non fuggire: “Non ho fatto male a nessuno, perché dovrei temere?”, rispose avviandosi verso casa. Non si sarebbero più rivisti.
Un "thriller" iniziato 75 anni fa
Don Bonifacio camminò fino a Grisignana da don Rocco, il terzo dei ricercati, lo avvertì del pericolo ma poi rifiutò di restare per la notte: i due giovani sacerdoti si salutarono davanti al piccolo cimitero di San Vito e da qui don Francesco proseguì da solo verso la sua canonica. E’ a questo punto che si perdono per sempre le tracce di don Francesco Bonifacio, rastrellato, seviziato e ucciso a soli 34 anni la sera dell’11 settembre 1946 da guardie popolari jugoslave in agguato nel cimitero. Un omicidio così “illegale” che i responsabili di quella azione dovettero “giustificarsi” di fronte ai loro stessi mandanti in un processo farsa, e il corpo del sacerdote tanto amato da tutti fu fatto immediatamente sparire. Fino all’8 settembre di un anno fa, quando un teschio riesumato dal fondo di una foiba ha attirato l’attenzione della polizia anticrimine croata.
Sembra la trama di un thriller, e in effetti i contorni della misteriosa vicenda anziché sfumare col tempo hanno assunto tonalità sempre più vivide, soprattutto in questo 75esimo anniversario dalla tragedia, con le autorità croate determinate a ritrovare il corpo del sacerdote, beatificato nel 2008 da Benedetto XVI in quanto ucciso “in odium fidei”.
Un teschio riemerso dalla Foiba dei Martinesi
In realtà le ricerche dei resti e le indagini sul suo omicidio non si sono mai del tutto fermate nemmeno negli anni bui del regime titino, grazie alla testardaggine di alcuni sacerdoti croati e italiani, e dei familiari del beato Bonifacio, ma hanno seguito una sorta di percorso “carsico”, con le timide testimonianze che emergevano sottovoce e subito riaffondavano nel silenzio impaurito di chi non poteva parlare. Tra i “detective”, chi non ha mai mollato è Mario Ravalico, ex presidente dell’Azione Cattolica triestina e per un decennio direttore della Caritas diocesana, autore del saggio Don Francesco Bonifacio, assistente dell’Azione cattolica fino al martirio (ed. Ave 2016), che per anni ha rintracciato alcuni testimoni dell’epoca e raccolto i ricordi di chi ha visto o saputo. Il suo archivio e la Positio (l’insieme dei numerosi documenti raccolti per il processo di beatificazione) lasciano ormai poche ombre sull’omicidio del beato Bonifacio, citando per nome e cognome i diretti responsabili e delimitando strettamente i luoghi in cui cercare i suoi resti. “Sono in costante contatto, attraverso le autorità diplomatiche, con gli organi inquirenti croati”, afferma Ravalico, che ha il mandato di rappresentante della diocesi di Trieste presso le autorità croate, e che ha consegnato loro le testimonianze raccolte negli anni, “in particolare di coloro che nel dopoguerra avevano assunto in Istria ruoli importanti nell’apparato allora al potere. Purtroppo la pandemia ha rallentato i lavori e non è ancora l’ora di conoscere tutto, ma posso dichiarare che di recente squadre specializzate nella ricerca in questo campo provenienti da Zagabria, sotto la direzione delle competenti autorità investigative istriane, si sono calate dentro la ‘Foiba dei Martinesi’ vicino a Grisignana, e hanno recuperato resti umani la cui presenza sul fondo era già nota da decenni. E’ un’indagine condotta con grande serietà sotto il coordinamento della Procura di Pola”. Le ossa sono ora a disposizione degli organi inquirenti per gli esami della polizia scientifica, poi passeranno all’Istituto di medicina legale: dalla loro conservazione dipenderà la possibilità di confrontare il Dna con quello dei parenti del beato. “L’altra zona di ricerca è il piccolo cimitero dismesso di San Vito, quello dell’addio a don Rocco, dove secondo altre testimonianze potrebbe essere stato sepolto di nascosto, e dove già molti anni fa durante una sepoltura furono rinvenuti brandelli della veste di don Bonifacio”. Un’ipotesi non esclude l’altra, dato che gli aguzzini del sacerdote si disfarono del suo corpo spogliato, nascondendolo prima in un luogo provvisorio, per poi trasferirlo il giorno successivo in altro luogo definitivo.
La legge croata che denuncia i crimini di Tito
Se 75 anni sembrano ormai troppi per attribuire valore alle parole degli anziani che ricordano (la vox populi), vale la pena sottolineare che due anni fa a Castua (Fiume) gli scavi condotti da autorità croate e italiane insieme hanno ritrovato le otto salme ricercate, esattamente nel punto in cui per decenni solo la “vox populi” aveva continuato a sussurrare che erano state “infoibate” (tra questi l’ultimo podestà di Fiume, Riccardo Gigante, la cui identità è stata poi confermata dal Dna). Sono operazioni fino a pochi anni fa inimmaginabili per motivi politici, ma oggi addirittura all’ordine del giorno grazie alla legge votata dal Parlamento croato (il Sabor) nel marzo 2011 sulla “Ricerca delle persone scomparse dopo la fine della seconda guerra mondiale e dei crimini commessi per opera dei comunisti jugoslavi”. Un impegno portato avanti dalla nuova Repubblica di Croazia, che guarda al futuro e nulla vuole avere a che spartire con i crimini del passato regime. Così si susseguono frequenti i ritrovamenti di fosse comuni con decine di migliaia di cadaveri di croati, sloveni e italiani gettati nelle cavità o in fosse comuni dai militari di Tito nel finale della guerra o più spesso in anni ormai di pace. Un quadro cruento, che squarcia definitivamente la patina assolutoria tuttora riservata a Tito (persino in Italia), ridandogli il suo giusto posto tra i dittatori sanguinari del XX secolo. Ma anche il segno di un nuovo clima di civiltà e riconciliazione che unisce le persone di buona volontà a prescindere dai confini nazionali e dal colore dei passati regimi.
Centinaia di migliaia le vittime: così si contestualizza
Immaginiamo cosa accadrebbe se in Italia venissero rinvenute fosse comuni con gli scheletri di centinaia di migliaia di oppositori del defunto regime fascista… Ipotetica dell’irrealtà, ma utile per provare a comprendere il raccapriccio espresso il 23 agosto dal premier della Slovenia Janez Janša, in occasione della Giornata europea della Memoria di tutti i regimi totalitari: “La più grande strage dopo la seconda guerra mondiale nell’ex Jugoslavia è stata quella attuata da Tito contro i suoi oppositori, costata la vita a oltre 500mila persone”, ha denunciato. Una ferocia mai condannata dal mondo, quindi confluita impunemente nella “dottrina dell’esercito popolare jugoslavo degli anni '90, secondo cui il ‘nemico’ doveva essere fisicamente distrutto – ha concluso Janša –: se le Nazioni Unite avessero condannato il genocidio comunista e i massacri del dopoguerra in Slovenia e altrove, non ci sarebbe stato nel 1995 il massacro di Srebrenica”.
Il martirio di don Francesco e di migliaia e migliaia di italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia va dunque “contestualizzato” in questo quadro storico oggi acclarato, eppure ancora messo in discussione da pochi ma rumorosi personaggi aggrappati a un triste passato e incapaci di superare anacronistiche categorie di pensiero. La polverosa diatriba maldestramente portata avanti dallo storico dell’arte Tomaso Montanari (neo eletto rettore dell’università per stranieri di Siena) e dal medievalista Alessandro Barbero, che non negano il dramma delle Foibe e nemmeno l’impressionante numero di morti, eppure non tollerano il Giorno del Ricordo, ne è l’ultima (speriamo davvero) manifestazione.
Ucciso per la sua santità
Ma perché Bonifacio era un “nemico del popolo” da eliminare? “Don Francesco era molto amato dalla gente, i giovani ancora nel dopoguerra entravano in Azione Cattolica a frotte, attratti dalla coerenza tra la sua predicazione e la sua vita appassionata al servizio di Dio e di chiunque avesse bisogno, senza distinzione. Da sempre accorreva al fianco dei fratelli, che fossero italiani o slavi, tutti erano il suo gregge”, spiega Ravalico. Numerose le testimonianze in tal senso: quando partigiani e fascisti durante la guerra si ammazzavano, il giovane prete a suo rischio andava a recuperare i morti e li seppelliva, chiunque fossero. Si oppose ai fascisti impedendo che dessero fuoco alle case in cui erano stati accolti i partigiani. Ma andò anche al Comando di Difesa Popolare dei titini a Buie a protestare per l’assassinio di contadini italiani. In canonica nascondeva i giovani che non volevano combattere dalla parte dei nazifascisti, ma anche chi fuggiva dalle file dei titini. Eppure finita la guerra proprio il forte ascendente che continuava ad avere sul popolo divenne la sua colpa. “Colpire il pastore piuttosto che il gregge” era il mandato, e così fu fatto con lui come con molti sacerdoti italiani e slavi (nello stesso contesto ad esempio va posto il martirio del beato don Miroslav Bulešić, ucciso 11 mesi dopo, a 27 anni).
“Mi pare impossibile venire derubato della libertà da coloro che si dicono i nostri liberatori”, scriveva don Bonifacio sul suo diario, fiducioso nonostante le minacce sempre più esplicite (“le riunioni dell’Azione cattolica non le teneva più in canonica ma in chiesa con le porte aperte – dice Ravalico – perché tutti potessero vedere e per difendersi così dalle infondate accuse di ‘attività contro il popolo’”), ma in Istria la Liberazione – a differenza che nel resto d’Italia – fu pura utopia. E l’Azione cattolica, così invisa fino a poco prima al precedente regime fascista, era ora invisa alla dittatura comunista.
Uno degli assassini: "Fu prete fino all'ultimo"
C’erano alcuni contadini a vedere la scena dell’arresto di don Francesco mentre Jordan N. e Antun R., le due guardie popolari appostate nel cimitero di San Vito, assieme al sottufficiale Roberto S. capo dell’OZNA della zona, trascinavano nel bosco il prete per poi farlo salire sulla famigerata auto nera della polizia segreta che prelevava le persone. Ma è proprio uno degli assassini, molti anni dopo, a descrivere la fine di un uomo di pace, persino stoico nella fede, morto chiedendo a Dio il perdono per tutti. “Non era come altri prelevati che supplicavano pietà – ha testimoniato Jordan N., deceduto nel 1996 a Cittanova, in Istria –. Quel prete non ha smesso di essere prete fino alla morte”. Una coerenza che all’epoca lo aveva mandato in bestia, al punto che i tre responsabili dell’arresto lo massacrarono di botte anziché portarlo ad Abbazia (era la sede del comando dell’esercito jugoslavo, dove si “processavano” gli innocenti e li si avviava alla morte). Una testimonianza toccante fu raccolta anche da don Rocco, che fino all’ultimo giorno di vita non smise di indagare: “Scaraventato fuori dalla vettura, fu colpito con una pietra sul viso, poi sarebbe stato sgozzato con un coltello alla gola. Nascosto subito il cadavere, al mattino seguente fu fatto sparire probabilmente nella vicina foiba dei Martinesi”. Una disobbedienza che costò ai due sgherri un processo di facciata e qualche giorno di galera, mentre il sottufficiale fu condannato a oltre vent’anni di carcere. In cella fu gettato anche Giovanni Bonifacio, fratello del sacerdote, reo di essere andato dai comandi titini a chiedere di suo fratello (poi partì esule per Trieste con la vecchia madre).
“Le indagini sono ancora in corso”, fa sapere oggi la Procura della Repubblica di Pola, che per riservatezza fa solo capire che i lavori procedono (anche se rallentati dal recente ritrovamento di altre fosse comuni piene di cadaveri). Un’operazione volta a seppellire un passato barbaro, non a creare nuove divisioni o revanscismi, esattamente nel solco lasciato dal beato Bonifacio, che dieci giorni prima di morire dall’altare pronunciava parole profetiche: “Fare il bene anche a quelli che ci odiano e ci perseguitano, ecco l’elemosina spirituale. Gesù chiama amico il suo traditore, ama i propri crocifissori, per essi domanda perdono al Padre celeste”, come presto farà lui stesso.
Tra perdono e Giorno del Ricordo
Un perdono che ha dato frutti, sottolinea Mario Ravalico: “Sono diversi i segni di ravvedimento in alcuni dei suoi aguzzini, non sta a noi giudicare quello che può essere successo nel cuore di costoro. Mentre scrivevo il libro sul martirio del beato, suo fratello Giovanni mi raccomandava di non parlare mai male di chi lo aveva perseguitato perché lui li aveva perdonati”. Anche questo è il Giorno del Ricordo. Che alle migliaia di istriani come don Francesco rende giustizia e nulla ha a che fare con il fascismo, se non negli incubi di pochi che evidentemente non sanno, ma nemmeno si sprecano a studiare.