Il centenario. L’originale universalità di Meneghello
Lo scrittore Luigi Meneghello (1922-2007)
Esattamente cent’anni fa, il 16 febbraio 1922, nasceva a Malo (Vicenza) Luigi Meneghello. L’avevo conosciuto e frequentato a Londra nella seconda metà degli anni ’90: onorato, da giovane studente di dottorato, di trovarmi a conversare a pranzo o a cena - insieme a sua moglie Katia e agli amici che me l’avevano presentato, Giulio e Laura Lepschy - con un personaggio del suo calibro; anche perché gli piaceva raccontare e discutere, tanto che non si sottraeva mai alla conversazione. Poi l’avevo ancora rivisto, e purtroppo sarebbe stata l’ultima volta, per un’intervista a Thiene nella primavera del 2004, tre anni prima della sua scomparsa avvenuta il 26 giugno 2007. Aveva allora 83 anni, ma il suo eloquio non presentava alcunché di senile. Al contrario, c’era una velocità di pensiero, una rapidità di espressione a tratti irruente, spesso ironica, che non rinunciava alla battuta e al gusto della provocazione, al punto che un po’ si faceva fatica a stargli dietro. Era così Meneghello: un’invidiabile lucidità e brillantezza intellettuale che hanno fatto di lui - coetaneo di Pasolini, Fenoglio, Calvino (anzi, di quest’ultimo, in realtà, un anno più anziano) - una delle figure più originali della nostra letteratura dell’ultimo secolo. Questi tratti della sua mente e del suo carattere hanno un preciso corrispettivo nella sua opera letteraria. Nato in una famiglia della piccola borghesia (il padre era meccanico, la madre maestra elementare), Meneghello studia a Malo e a Vicenza; poi, conseguita la maturità classica, si iscrive al- la facoltà di Lettere dell’Università di Padova, dove ha come docenti Norberto Bobbio e Concetto Marchesi, per laurearsi nel 1945. Nel 1943 frequenta il corso allievi ufficiali alpini a Merano ed è poi inviato a Tarquinia per partecipare alla difesa della costa tirrenica dagli sbarchi alleati. Sorpreso dall’8 settembre, riesce a risalire in Veneto, e con un gruppo di amici contribuisce a formare nel Bellunese, all’inizio del 1944, un reparto partigiano che si richiamava al Partito d’Azione. Questi sono 'i piccoli maestri', le cui azioni, e i rastrellamenti subiti da parte di fascisti e tedeschi, verranno descritti vent’anni più tardi nel suo omonimo libro. Fra il 1946 e il 1947 Meneghello matura la decisione del 'dispatrio', per usare il titolo di una delle sue opere ( Il dispatrio, 1993): vinta una borsa di studio del British Council all’Università di Reading ( Inghilterra), vi si trasferisce nel settembre 1947. Frattanto, nel 1946, aveva incontrato Katia Bleier, ebrea iugoslava sopravvissuta ad Auschwitz, che sposa a Milano nel 1948. Sarà la sua inseparabile compagna di vita. La borsa di studio a Reading si tramuta in seguito in un incarico permanente di insegnamento, che porta nel 1961 alla creazione di un Dipartimento di Italianistica, diretto dallo stesso Meneghello. Scriverà nel 1993: «L’incontro con la cultura degli inglesi e lo shock della loro lingua hanno avuto per me un’importanza determinante. Sono certamente un italiano, e non ho alcun problema di identità, né mi sono mai sentito per questo aspetto in esilio». Nel corso della carriera universitaria a Reading, Meneghello comincia presto a dedicarsi alla scrittura creativa. L’opera che inaugura la sua carriera di narratore è Libera nos a Malo (1963, oggi disponibile, come gli altri libri di Meneghello, presso Rizzoli; ma ricordiamo anche il 'Meridiano' Mondadori delle Opere scelte curato da Francesca Caputo e introdotto da Giulio Lepschy), una straordinaria rappresentazione della vita del suo paese. Il titolo è tratto dal 'Padre nostro' e insieme allude al nome del paese natale dello scrittore. Come se volesse intendere qualcosa come «liberaci da Malo»: il «natìo borgo selvaggio» (per dirla con Leopardi) è infatti luogo degli affetti primigeni, ma anche, metaforicamente, una prigione dalla quale è necessario evadere per poter spiccare il volo nel mondo. Il libro può essere descritto, per usare le parole di Meneghello, come «poema in frammenti di prosa, confessione autobiografica, umorosa e fervida rivendicazione di una supremazia dialettale, incantata epopea dell’infanzia e scavo archeologico di un paese perduto ». Si tratta di un’affettuosa rievocazione di un 'tempo perduto', ripercorso dallo scrittore ormai adulto. Attraverso il microcosmo di Malo vengono raffigurate anche le trasformazioni della società italiana, dalla civiltà contadina all’avvento della modernità industriale. La lingua utilizzata da Meneghello è decisamente originale: lo scrittore alterna infatti vocaboli colti e discorsività familiare, termini letterari (ripresi spesso in tono ironico e scherzoso) e altri dialettali o calchi italiani dal dialetto. Insomma un singolare pastiche capace di restituire un preciso ambiente sociale e una specifica condizione psicologica. È stato lo stesso autore a spiegare in una nota in calce al romanzo il senso e i modi della sua operazione linguistica: «Non mi sono proposto [...] né di tradurre né di riprodurre il dialetto; invece ho trasportato dal dialetto alla lingua qualche forma e costrutto là dove mi pareva necessario, e sempre col criterio che questi miei 'trasporti' nel loro contesto dovessero riuscire comprensibili al lettore italiano». Il risultato è perciò quello di una prosa vivace di umori locali, ma anche di più vasta leggibilità. Se Libera nos a Malo è il capolavoro di Meneghello (al quale seguirà nel 1974 Pomo pero, un libro che è una sorta di continuazione o appendice a quel romanzo), vanno ricordate anche alcune opere di argomento 'civile', tra le quali I piccoli maestri (1964, da cui nel 1997 l’omonimo film diretto da Daniele Luchetti), con la loro rilettura antiretorica (eppure emotivamente partecipe) della Resistenza, Fiori italiani (1976), sull’educazione- diseducazione di un giovane durante il regime fascista, e Bau-sète! (1988), penetrante rievocazione del dopoguerra. Ma non si pensi a Meneghello come a un autore tutto volto al passato. In quell’ultima intervista sopra ricordata, disse di non coltivare alcun rimpianto - e a tale proposito citava per contrasto, un po’ polemicamente, Pasolini - per la civiltà contadina scomparsa. E spiegava: «Crogiolarsi nella nostalgia è un lusso che non vale la pena concedersi. Se hanno amato qualcosa nel passato o del passato, gli scrittori hanno una possibilità in più di preservarlo dall’oblio: fissarlo in una forma scritta». Che, se vogliamo, è una bella risposta all’eterna domanda su quale sia l’utilità della letteratura.