IL CASO. Il lato oscuro di Bedeschi
«Nikolajewka: c’ero anch’io». «Fronte greco-albanese: c’ero anch’io». «Fronte d’Africa: c’ero anch’io». «Prigionia: c’ero anch’io»... Ma tra le raccolte di testimonianze belliche cui Giulio Bedeschi si dedicò dal 1972 al 1990, esplorando praticamente tutto il nostro scacchiere nella seconda guerra mondiale, non si trova alcun «Repubblichini: c’ero anch’io». Eppure doveva conoscerla bene Bedeschi, quella storia, dal momento che ne aveva fatto parte in posizione dominante: federale di Forlì, direttore del bisettimanale fascista Il Popolo di Romagna, comandante della Brigata Nera «Capanni». Già: l’ufficiale medico nonché alpino Bedeschi – avendo partecipato come volontario e con molto onore alle campagne d’Albania, di Jugoslavia e di Russia – dopo l’8 settembre 1943 aveva deciso di aderire a Salò. E tale circostanza probabilmente non è estranea al fatto che, dopo la guerra e per una dozzina d’anni, il manoscritto delle Centomila gavette di ghiaccio abbia collezionato ben 16 rifiuti presso diversi editori, prima di trovare in Mursia la casa (fondata tra l’altro da un ex partigiano) che ne ha stampate finora 4 milioni di copie. Però non sembra – nonostante le numerose verifiche effettuate – che Bedeschi abbia mai non scritto della sua esperienza repubblichina, che è stata riesumata prima da una tesi di laurea e poi (16 anni dopo la scomparsa dello scrittore, morto alla fine del 1990) in un libro dello storico della Resistenza vicentina Benito Gramola, dedicato fin dal titolo a La 25 Brigata nera «Capanni» e il suo comandante Giulio Bedeschi (Cierre Edizioni).
Ora un altro storico locale ma bresciano, Lodovico Galli, aggiunge qualche documento inedito a ciò che Gramola definisce «un lungo profondo ingiustificato buco nero», pubblicandolo in facsimile nel suo Relazioni e appunti della Repubblica sociale italiana. Brescia 1943-1945 (stampato in proprio). Si tratta in particolare di relazioni firmate dal federale Bedeschi, di foto che lo mostrano mentre passa in rassegna i militi e soprattutto di due lettere al Duce, conservate all’Archivio centrale di Roma e in copia nel Fondo Susmel del Centro Studi e documentazione Rsi di Salò. La prima (del 2 marzo 1945) è la più sconcertante per il nostro palato: Bedeschi chiede per sé e i suoi soldati «l’ambitissimo privilegio di poter portare sul petto l’ "M" d’onore del Duce»; nella seconda, inviata il 6 marzo dello stesso anno da Milano, fornisce invece a Mussolini un «appunto» sullo stato della brigata. Bedeschi all’epoca aveva trent’anni e probabilmente non poco del suo fascismo derivava dal padre Edoardo, classe 1880, che era stato compagno di scuola di Benito Mussolini a Faenza, fu un pubblicista molto attivo ed aveva pubblicato nel 1938 un libro di un certo successo su La giovinezza del Duce, oltre a vari volumi scolastici; infatti era direttore didattico nel Veneto (Giulio nacque ad Arzignano) e tornò in Romagna come ispettore scolastico poco prima degli anni Quaranta. Fu certamente per questo che il figlio primogenito nel novembre 1943 divenne direttore dello storico ed agguerrito periodico repubblichino Il Popolo di Romagna; e nel suo primo editoriale assicura fedeltà al fascismo: «Dottrina che più di ogni altra costituisce, se applicata integralmente, la realizzazione delle più alte aspirazioni del popolo... Le nostre premesse ideologiche sono assolute, sono quelle del Fascismo di Mussolini». In forza di tale incarico il 4 marzo 1944 Bedeschi viene nominato «reggente della federazione dei Fasci Repubblicani» di Forlì, succedendo ad Arturo Capanni, ucciso all’inizio di febbraio 1944 in un attentato; deve godere anche di ottima posizione economica, visto che in quell’aprile offre la ragguardevole cifra di 1000 lire per le armi «alla patria». In seguito alla militarizzazione obbligata degli iscritti al partito fascista, infine, nell’agosto successivo Bedeschi assume il comando della locale Brigata Nera intitolata al medesimo Capanni e all’inizio di novembre, poco prima della liberazione alleata di Forlì, passa coi suoi soldati nel Vicentino (zona a lui ben nota) con compiti d’occupazione oltre che d’assistenza a 300 sfollati forlivesi e di sussistenza per i 300 soldati del Battaglione d’assalto «Forlì» al fronte. Lo scrive egli stesso nel sopraccitato «Appunto per il Duce»: «Gli uomini che si trovano a Thiene... curano l’invio al reparto al fronte dei materiali occorrenti... provvedono direttamente alla sicurezza della zona Thiene Fara Vicentino, con dirette operazioni di rastrellamento». Risulta a Gramola che ancora il 26 aprile 1945 il futuro scrittore fosse a Vicenza, ma non è dato sapere come si sia salvato dalle epurazioni (tutti i comandanti di Brigate Nere erano automaticamente condannati a morte) o abbia evitato un processo, di cui finora non c’è traccia.Che sulla «Capanni» s’appuntassero particolari vendette partigiane, del resto, lo testimonia la vicenda cruda di 25 soldati della Brigata, prelevati in due riprese nel maggio 1945 da commando partigiani forlivesi nelle prigioni di Thiene e giustiziati a freddo. E Bedeschi? Benito Gramola è riuscito a scoprire che fino al 1949 risultava trasferito a Ragusa, in Sicilia. È lì che scrisse le Centomila gavette, la cui prima stesura però è andata perduta nell’alluvione del Polesine del novembre 1951: epoca in cui il medico-scrittore era dunque già rientrato al Nord. Dopo il suo successo editoriale, del periodo «nero» dell’autore non si parlò più – e per comprensibili motivi; del resto secondo una testimonianza della moglie, che ne ha curato un’opera postuma, Bedeschi «non riteneva ancora, al momento della morte, che fossero maturi i tempi per parlare di quel periodo in modo sereno». A ciò si aggiunge l’evidente rischio di «sporcare» prima la figura e poi la memoria di un personaggio che, attraverso i suoi libri, non solo si era abbondantemente «riscattato» ma era anche entrato nel mito, soprattutto quello degli alpini. Così alla Biblioteca Bertoliana di Vicenza, che ha in custodia l’archivio Bedeschi, nessuna delle 40 buste conserva accenni all’epoca repubblichina. Anche il libro di Gramola ebbe pochissime recensioni. Un altro volume del 1997 – I Battaglione d’assalto Forlì, del reduce Adelago Federighi –, riportante foto di Bedeschi in divisa, è rimasto tutt’al più nelle librerie dei «nostalgici». Nemmeno l’opera di Danilo Restiglian Thiene nel periodo della seconda guerra mondiale (2006), dove si ricostruisce l’operato della «Capanni» nella città del vicentino compresi «gli interrogatori (e, purtroppo, anche torture a partigiani o presunti tali)» effettuati nella locale scuola di avviamento al lavoro, sembra aver sollevato alcuna obiezione: tant’è vero che – spiega l’autore – «Thiene ha una via dedicata a Bedeschi». Nel 2009, infine, il giovane bassanese Enrico Saretta ha discusso all’università veneziana di Ca’ Foscari una documentata tesi in cui trascrive gli articoli «repubblichini» di Bedeschi e il cui titolo sembra indicare una strada per il futuro: «Da giornalista fascista a scrittore di pace». Che il tempo giusto per parlare del passato del medico-alpino sia dunque arrivato?