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IL GRANDE TENORE. «La mia vita per la lirica tra grinta, fede e umiltà»

Pierachille Dolfini venerdì 10 dicembre 2010
Oggi che ha 86 anni confessa che qualche volta canta ancora. «Mi metto al pianoforte e dedico a mia moglie "Non ti scordar di me", canzone con la quale ho chiuso tutti i miei concerti, compreso quello dell’addio alle scene, al Metropolitan nel 2003, dopo tanti anni passati a cantare sui palcoscenici di tutto il mondo». Un tempo che resta nella memoria. Nella storia. Tanto che domani (sabato 11 dicembre) a Venezia Carlo Bergonzi riceverà il premio Rubinstein "Una vita nella musica". E insieme al prestigioso riconoscimento anche la Medaglia d’oro del Presidente della Repubblica. Ne ha fata di strada il ragazzo che negli anni Trenta cantava «l’Ave Maria ai matrimoni» nelle chiese della campagna parmense. Da Vidalenzo di Polesine, «dove il mio papà era casaro e produceva il parmigiano», è arrivato alla Scala e a New York. Cantando. Maestro Bergonzi, lei è considerato il più grande tenore verdiano di sempre. Che effetto le fa questo doppio riconoscimento?Non le nego che mi fa molto piacere. Ma non sono mai stato ambizioso. Semmai coraggioso. Tant’è vero che gli amici di gioventù mi diedero il soprannome di Leon. Il riconoscimento più bello. L’umiltà e il coraggio me le ha insegnate la vita in un preciso momento.Quando?Nel 1943. In guerra. Ero militare a Mantova e l’8 settembre i tedeschi mi caricarono su un treno diretto nel campo di concentramento di Rostock. Sono tornato a casa nel 1945, pesavo 36 chili.Cosa le ha dato la forza per andare avanti?La musica perché la domenica facevamo piccoli concerti per cercare di stare un po’ allegri. Ma soprattutto la fede che è stata un’ancora di salvezza nei momenti difficili della vita, molti dei quali li ho condivisi con mia moglie con la quale abbiamo da poco festeggiato i sessant’anni di matrimonio. Quando ha capito che ce l’avrebbe fatta?In due momenti. Il primo nel 1950. Dopo aver cantato da baritono per tre anni decisi di fare il salto e diventare tenore. Cantavo Andrea Chenier a Bari la sera che è nato il primo dei miei due figli. In sala c’era il direttore della Rai che mi offrì un contratto di sei mesi a cinquanta mila lire al mese in radio a Milano per un ciclo di opere di Verdi. Una boccata di ossigeno. Abitavo a Cusano Milanino, non avevo il pianoforte e studiavo in casa di un’amica. E faticavo a pagare l’affitto.L’altra svolta?Una sera del 1956. Cantavo "Manon Lescaut" a Parigi. Alla fine sento una voce che urla: «Bravo!». Era Mario Del Monaco che in camerino mi disse «Vieni a New York e ti cedo due mie recite». Pensai che non sarebbe mai accaduto. Ma il contratto arrivò davvero e cantai "Aida" con lo storico costume di Caruso perché quello di Del Monaco non mi andava. Iniziò il successo. Ma anche i sacrifici. Quando lavoravo vivevo tra la casa e le prove in teatro. Uscivo solo per andare a messa. A letto alle 20 e il giorno prima della recita vietato parlare. Ritrova questo spirito nelle giovani generazioni di cantanti?Purtroppo no. Ci sono belle voci, ma hanno fretta di debuttare e di guadagnare. E vengono sfruttate male dai direttori artistici dei teatri che non sono musicisti, ma politici: per questo non vado più all’opera, perché c’è solo mediocrità.