Un talento sprecato, fa stringere il cuore. Tanto più se è autentico e raro come quello di Philip Seymour Hoffman, l’attore 46enne morto per overdose domenica a New York. Eppure come nella parabola di Matteo, Hoffman i suoi talenti li aveva moltiplicati in maniera esponenziale col passare degli anni, affermandosi come il migliore interprete della sua generazione, anzi, come uno dei migliori che siano mai passati per Hollywood. Una carriera costruita con intelligenza, partendo dal cinema indipendente con interpretazioni affinate sulle assi dei teatri di Broadway dove nel 2012 era stato un indimenticabile "commesso viaggiatore" per Miller. Ma si vede che non è bastato. Proprio ora che aveva raggiunto l’età per consolidare definitivamente la sua figura d’artista, più volte paragonata a Orson Welles anche per una certa somiglianza fisica, il suo talento ci è stato improvvisamente rubato dall’eroina.E fa male vedere aggiungere il nome di Philip Seymour Hoffman al macabro elenco delle stelle "bruciate" nel firmamento dello spettacolo, da John Belushi a Heat Ledger e James Gandolfini, da Michael Jackson a Amy Whinehouse e Withney Houston, lista che i media rispolverano ciclicamente alla bisogna. Allora vien da riflettere quanto le luci della ribalta nascondano all’esterno e consumino dall’interno alcuni talenti, fatti di sensibilità esasperata e fragilità umana. Caratteristiche che i più non sospettavano appartenere al corpulento attore, che invece lottava da anni contro il demone della droga. Forse anche il lungo personale disagio ha fatto sì che Hoffman scegliesse sempre personaggi fuori dagli schemi, ambigui, sfuggenti (come non ricordare il guru persuasore stile Scientology di «The Master» con cui vinse nel 2012 la Coppa Volpi?), di cui indagava tutte le sfaccettature dell’anima rendendone la complessità sullo schermo con gesti misurati e somma finezza. Bastava un’alzata di soppracciglio o un sottile sorriso sardonico per dare la svolta a un film. Il mondo oggi perde un grande artista, i suoi tre bambini perdono un padre, il che è ancora più drammatico. Ma temiamo di sapere già come andrà a finire. Hollywood, che i miti li crea e li distrugge, piangerà le sue lacrime di coccodrillo, gli farà magari una dedica ai prossimi Oscar e poi via, "the show must go on". Lo spettacolo deve continuare, senza neanche una vera riflessione sulla "grande distruttrice". Che non è la morte, ma la droga.