Agorà

Scenari. Il “grande gioco” per l’impero digitale

Simone Paliaga sabato 12 ottobre 2024

Rami Malek nella serie "Mr. Robot"

Cloud, dematerializzazione, virtuale. Sono alcune delle parole chiave del fenomeno oggi riconosciuto come transizione digitale. L’orizzonte di senso che schiudono allude a mondi eterei e intangibili. Dati, informazioni, siti risiedono lassù, tra le nuvole, cloud, appunto. Ma siamo sicuri che sia proprio così e non un errore di parallasse che adombra ben più terrene e cruente dinamiche di potere, inedite forme di colonialismo, scontri tra superpotenze?

Ne è convinto Antonio Deruda che, in Geopolitica digitale. La competizione globale per il controllo della Rete (Carocci, pagine 184, euro 17,00), aiuta a riportare lo sguardo a terra, in particolare nelle profondità marine. È lì che si svolge il grande gioco del mondo multipolare. «La scelta su dove far passare un nuovo cavo sottomarino in fibra ottica o l’identificazione di un luogo dove costruire un importante data center – precisa – è una decisione strategica che può incidere sul futuro di intere aree del mondo». Ridisegnare le mappe della geografia digitale non è un atto insignificante. Equivale a cavalcare l’onda di un colonialismo 4.0, stabilendo le aree destinate allo sviluppo economico e quelle che diventeranno periferia. Senza contare le aree destinate a rimanere preda di un colonialismo d’antan, mere riserve di metalli rari preziosi indispensabili alla costruzione di infrastrutture e componentistica, come i cosiddetti semiconduttori, più noti col termine microchip.

Intelligenza artificiale, Internet delle cose, supercomputer quantistici, 5G, realtà virtuale e metaverso sono fenomeni che ridefiniscono nuovi rapporti e geografie del potere, passando dal monopolio di Washington a un bipolarismo con Pechino, senza escludere Nuova Dehli e la società di telecomunicazioni Tata Communications e Mosca con la sua sperimentazione di un’internet sovrana, RuNet. Questo scenario è destinato a segnare, nei prossimi decenni, non solo i rapporti di forza tra le potenze ma anche le vite di tutti i loro cittadini.

Per maneggiare il digitale e l’intelligenza artificiale, Il nuovo fuoco (Bocconi University Press, pagine 370, euro 29,50), occorre dotarsi di strategie efficaci, altrimenti se ne perde il controllo. Ben Buchanan e Andrew Imbrie, nello studiare guerra, pace e democrazia nell’era dell’IA, lo sanno bene. E ne parlano a ragion veduta, visto che il primo è special advisor della Casa Bianca sull’IA. A imprimere la recente accelerazione tecnologica, per gli autori, contano l’aumento della potenza di calcolo, lo sviluppo di algoritmi di nuova generazione e le messi di dati a disposizione degli algoritmi di apprendimento necessari all’IA. Su questi ambiti la rivalità tra Usa e Cina si acuisce, puntando entrambe sulla supremazia politica. Bisogna però, per i due autori, non perdere di vista il fattore umano, spesso trascurato dagli analisti. I nuovi algoritmi rivelano opacità, distorsioni ideologiche o bug dovuti all’inizializzazione, certo, ma spesso si scorda che «le tecnologie non sono deterministiche, modellano e sono modellate dalle società». Pesa chi disegna, sviluppa e perfeziona macchine e algoritmi, orientandone l’azione. Non a caso si assiste, in questo ultimo periodo, a un’autentica guerra dei talenti per attirare nelle università e nei centri di ricerca studiosi e studenti provenienti da ogni parte del mondo. Perché è nell’ambito della ricerca, e prima ancora nella formazione, che si giocherà la partita per evitare che Il nuovo fuoco, una volta acceso, divampi incontrollato soprattutto a causa della fluidità, favorita dalle nuove tecnologie, tra ambiti civile e militare. Difficile rinvenire un punto di accordo tra le potenze. Rispetto alla deterrenza nucleare dei tempi della Guerra Fredda, oggi, in una realtà in evoluzione su una terra incognita, non esistono punti di riferimento stabili, come allora era quello della distruzione atomica, intorno a cui negoziare e accordarsi per fissare standard di ricerca condivisi.

Se indiscusse sono le novità suscitate dalle conquiste tecnologiche, esse si iscrivono in una storia di lungo periodo, come sottolinea a buon diritto ma con qualche ingenuità David Runciman in Affidarsi. Come abbiamo ceduto il controllo della nostra vita a imprese,Stati e intelligenze artificiali (Einaudi, pagine 320, euro 19,00). Per lo scienziato della politica di Cambridge, pur senza celare l’inedito dell’IA, è da secoli che l’uomo si affida a macchine. Lo sarebbero Stato e imprese, macchine agenti e non intelligenti, magari, ma sempre macchine a cui gli uomini si sono affidati per assumere decisioni che ampie comunità non potevano adottare senza aprire faglie di conflitto al loro interno. Se il mondo è stato modellato in passato da Stati e imprese, ora lo sarà dall’intelligenza artificiale. Niente di nuovo sotto il sole ma con il rischio di quella che lo studioso inglese chiama «seconda singolarità» che «potrebbe rappresentare una trasformazione biologica, se le macchine cambiassero non soltanto le nostre prospettive ma anche le nostre capacità naturali fondamentali». Non ci siamo ancora, secondo Runciman, dal momento viviamo ancora la condizione moderna «né semplicemente la condizione umana né quella post-umana». Siamo però davanti a una scelta. Investire sull’intelligenza, rendendo Stati e imprese più intelligenti, tenere separati IA e l’azione di Stati e imprese oppure, terza ipotesi, fornire potere di azione alle IA? Ma, in tal caso, risponderebbero del loro operato, in uno scenario in cui a confrontarsi non sarebbero solo gli Stati ma anche Stati e imprese tra loro?

Ben più realistica l’idea sottesa a Tecnologie dell’Impero, come recita il titolo del libro di Francesca e Luca Balestrieri (Luiss University Press, pagine 262, euro 18,00). «Tutto si è digitalizzato e tutto in prospettiva potrà intelligentizzarsi», affermano gli autori. L’IA travolgerà tutti i comparti, dal politico-economico al simbolico-immaginario, aprendo una discontinuità con il passato che richiederà «un surplus di creatività istituzionale» per il controllo dello sviluppo tecnologico. All’attuale disfunzionalità della politica non sfugge l’Europa, irretita in dedali istituzionali, ma neppure gli Stati Uniti, sconvolti dall’estrema polarizzazione, e la Cina, si cui incombono problemi di coesione interna. In gioco sarebbe «il labirinto del Minotauro», la rifondazione della sovranità, per governare progettazione, coesione e competizione dei sistemi tecno-industriali, orientare i flussi di capitali, di proprietà intellettuali e know-how, sorvegliando le migrazioni di dati affinché alimentino i processi di produzione interni basati sull’intelligenza artificiale. E con la sovranità, diciamo noi, anche la democrazia.