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Il disco. Springsteen, un nuovo album per raccontare l'umanità sperduta

Andrea Pedrinelli mercoledì 29 maggio 2019

Bruce Springteen (Ansa/US Danny Linch)

Quando il 14 giugno vedrà la luce Western Stars, primo album d’inediti di Bruce Springsteen da cinque anni in qua, probabilmente a qualche fan del rocker del New Jersey risulterà indigesto, per quanto si allontana dal prevedibile. Anche se non è certo la prima volta, che il Boss scardina le aspettative: accadde con Tunnel of love, album d’allure pop che nell’87 ne seguì la consacrazione a rocker abrasivo giunta tre anni prima con Born in the USA, nonché quando fece seguire alle lame etico-politiche del The rising post-11 settembre e d’un Devils & dust contro la guerra in Iraq un cd acustico sul repertorio di Pete Seeger, certo impegnato ma ad anni luce dal rock.

Ed ora, dopo un lustro ben speso a narrarsi fra un libro, antologie-riletture e 236 repliche a teatro di Springsteen on Broadway, tutti o quasi ci si aspettava dal Boss che tornasse alla sua poetica vigorosa e lucida, al suo gridare di noialtri mentre schitarra di sé in storie americane, al suo mescere in classe e poesia sferzante pietas per scattare foto dettagliate di disperata, nuda quotidianità dagli orizzonti però sempre spalancati a una commossa speranza nell’uomo. Bene, in Western Stars Springsteen tutto ciò lo fa: solo, non lo fa neppure per sogno, con graffi e chitarre del rock. Sarà che al rock ha già dato, sarà che la sua grandezza sta anche nella libertà con cui disco a disco immortala il reale usando le tinte secondo la sua sensibilità più adatte a narrarlo davvero, sia comunque sia Western Stars guarda agli Usa: sì, ma non a quelli del rock “alla Springsteen”.

Guarda a quelli country, pop e da grande orchestra del compianto Glen Campbell; a quelli dolenti, ribaldi e disincantati dell’ultimo Johnny Cash; persino a quelli fra ieri e oggi, retrò e sua declinazione moderna, di gioielli decisivi come la California suite che l’entertainer jazz-pop Mel Tormé licenziò nel ’57 a raccontare in note e parole storia, valori e paesaggi californiani. Springsteen attinge a quella prospettiva, della storia musicale a stelle e strisce, per cantare come siamo messi nel 2019 di Trump e delle paure, di fallimenti ideal-ideologicogenerazionali e d’una diffusa incapacità d’amare, facendo politica per valori e non per slogan in tredici nuovi racconti di una umanità d’oggi sperduta sulle strade d’America e del mondo. E come sono rese magistralmente, le comuni ansie, fierezze e speranze d’oggi proprio grazie a questo tuffo in anni Cinquanta sui quali peraltro il Boss, sia chiaro, non innesta languori o paesaggi né musicali né tematici.

Tratteggia invece, con bellissimi reticolati ritmici non di rado tesi, ch’è stato capace d’accavallare a intensità orchestrali degne d’un Sinatra, i commoventi chiaroscuri delle figure umane sperse ma tenaci di Tucson train, l’atmosfera dolente quanto sbruffona del testardo voler ripartire dopo vite di serie B di Drive fast, la riflessione pudica ma tranchant di Hello sunshine sulla necessità d’una speranza senza limiti. Col picco della pagina d’autore Somewhere North of Nashville, in cui l’autore condivide con chi ascolta le ferite del vivere, della dichiarazione d’intenti Hitch hikin’ («Seguo il vento, amico, con le canzoni / cercami adesso, domani sarò altrove») e il tocco finale dell’immensa Moonlight motel: viaggio di un uomo verso l’aldilà detto con dolcezza, poesia e il guizzo d’un orgoglioso «Comunque è meglio aver amato».

Forse qualche brano ripete struggimenti o solitudini, sfiora manierismi musicali nonché ammiccamenti come nella furba, labile eppure quanto conquistatrice There goes my miracle. Però quanto pare acuto e necessario anche questo nuovo Bruce Springsteen, questo Boss d’oggi che ci scaraventa addosso immagini e parole d’umili, doverose, ostinate resilienze al degrado, questo signore tanto libero da permettersi d’esser rock davvero, sferzante e affilato al massimo, senz’accennare di rock neppure una nota.