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Memoria. 26 ottobre 1954: dramma istriano, solo Trieste è Italia

Lucia Bellaspiga, inviata a Trieste venerdì 25 ottobre 2024

Novembre 1954: si attendono al confine gli esuli dalla zona B

Sul tetto dell’automobile sventolano i tricolori italiani, la gioia dei passeggeri appesi anche ai finestrini è incontenibile. Ma sul cofano della stessa auto un’altra bandiera è listata a lutto, sfregiata da una banda nera che taglia in due la capra, simbolo dell’Istria. È l’alba del 26 ottobre 1954 a Trieste, settanta anni fa oggi, e nella folla sconfinata il fotoreporter ha colto in uno scatto la gioia e il dramma, i due volti di quella data: Trieste dopo quasi dieci anni di angoscia torna all’Italia, ma da quello stesso istante anche l’ultima parte di Istria – abitata in massima parte da italiani – è perduta, concessa alla Jugoslavia di Tito. Presto decine di migliaia di nuovi profughi si riverseranno sulla città salva, un nuovo esodo in pieno tempo di pace, che durerà anni. A Trieste è storia ancora viva, ferita aperta, ma quanti nel resto d’Italia sanno che quasi dieci anni dopo la fine del secondo conflitto mondiale Trieste non era ancora Italia? Non studiamo schematicamente che dal 25 aprile del ’45 la guerra è finita? Oggi, a 70 anni da allora, il capoluogo giuliano celebra con grandi iniziative il ritorno della città all’Italia (o, come dicono i triestini, il ritorno dell’Italia a Trieste), e di particolare suggestione è la mostra “1954 – Trieste è italiana, la zona B è perduta”, organizzata dall’I.R.C.I. (Istituto Regionale per la Cultura Istriano-fiumano-dalmata) e curata dal direttore Piero Delbello con lo storico Roberto Spazzali (fino al 30 marzo 2025).

Professor Delbello, il titolo della mostra già riassume la doppia valenza di quel giorno fatidico per Trieste e per l’Italia, così come la foto-emblema.

L’abbiamo scelta perché ti dà l’urlo di gioia della città che ritorna italiana e non teme più di essere ceduta alla Jugoslavia, ma anche il lutto: l’auto esce dal Silos, l’ex deposito di granaglie allora destinato a centinaia di famiglie istriane fuggite già dal ’47, e in piazza Unità d’Italia quella notte una parte della folla in festa è fatta di esuli istriani accolti in città nei campi profughi e nelle baracche. Anche per loro “Trieste italiana” è la fine di un incubo, ma li lacera il dolore per la perdita definitiva dell’ultimo lembo di Istria su cui ancora c’erano speranze.

È una storia complessa. In parole semplici, perché qui, e solo qui, il dopoguerra ancora non era iniziato?

Premessa: a differenza delle altre parti d’Italia dove i liberatori dal nazifascismo sono gli anglo-americani, in questa regione il “liberatore” è la Jugoslavia. Spalleggiato dall’Urss, Tito pretende di occupare tutta la Venezia Giulia compresa Trieste fino al Tagliamento, da “liberatore” si rivela occupatore. In questa parte d’Italia il 25 aprile non porta la pace ma una nuova occupazione: i partigiani di Tito corrono a tappe forzate per arrivare a Trieste e Gorizia prima dei loro stessi alleati anglo-americani, e il primo maggio, a guerra finita, conquistano le due città, imponendo i famosi 42 giorni di terrore, durante i quali vengono rastrellati, deportati e, in molti, destinati a sparire centinaia di capifamiglia italiani senza alcuna colpa. Per questo nel 1947, con il Trattato di pace di Parigi, le potenze vincitrici delineano un piccolo “Stato indipendente” tra Italia e Jugoslavia, il cosiddetto “Territorio Libero di Trieste” (T.L.T.), diviso in due zone entrambe sotto governo straniero: la zona A, che comprende Trieste e pochi comuni intorno, è affidata all’amministrazione militare anglo-americana, la zona B, che comprende cittadine italianissime da secoli come Capodistria, Pirano e Isola, è sottoposta a un’amministrazione fiduciaria jugoslava. La situazione creata a tavolino è in precario equilibrio, Trieste sente costantemente l’alito di conquista di Tito, che nel 1953 arriva ad ammassare truppe e carrarmati sul confine tra zona A e B. La tensione è altissima, i giornali parlano già di guerra, il primo ministro italiano Pella risponde inviando l’esercito sullo stesso confine. Ci scappano anche i morti, quando la polizia civile, agli ordini degli inglesi, spara sui manifestanti che chiedono la restituzione della città alla madrepatria. Infine si arriva all’autunno 1954 con il Memorandum di Londra, sottoscritto fra i governi d’Italia, Regno Unito, Stati Uniti e Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia, e Trieste il 26 ottobre torna italiana.

Nei fatti il Memorandum del ’54 cosa determina?

I militari anglo-americani se ne vanno dalla zona A, e Trieste, Muggia e gli altri piccoli comuni passano sotto amministrazione italiana, mentre la zona B con le sue cittadine venete resta sotto amministrazione jugoslava. Ma con un’ulteriore modifica “a sorpresa” del confine, a favore della Jugoslavia: anche le colline sopra Muggia e vari paesi come Crevatini o Faiti (che pure erano zona A) vanno al maresciallo Tito. Per quei poveri abitanti è una beffa inaspettata, perdono tutto, resta solo l’esodo su Trieste. Anche le cittadine della zona B si sentono tradite, sacrificate alla Jugoslavia per salvare Trieste, sui muri prima di partire in massa si scrive “No all’infame baratto”: già nel febbraio del ’55 gli arrivi dei disperati nel capoluogo giuliano sono 59.798, la Prefettura di Trieste si trova impreparata, la città ha già accolto una notevole parte della grande ondata dei 300mila esuli istriani dal 1945 in poi, ha ancora a disposizione solo un migliaio di posti. Campi profughi, baracche, Silos, tutto è già occupato e la pubblica assistenza sfama ogni giorno una popolazione nullatenente, che nelle camerate non ha modo di cucinare e badare a se stessa. Nel 1955 il vescovo di Trieste e Capodistria, Antonio Santin, scrive al sottosegretario di Grazia e Giustizia, Oscar Luigi Scalfaro, per far presente a Roma la situazione spaventosa di quegli italiani, “usciti dalla zona B non spinti da nazionalismi ma per la pura impossibilità di rimanere colà ove un governo è assolutamente deciso ad eliminare ogni traccia italiana da quelle terre”. Gente lavoratrice e dignitosa che cercherà di rinascere dal nulla, anche a costo di cambiare emisfero. Ben si comprende il loro giubilo il 26 ottobre.

Emoziona rileggere le cronache di quella notte. Un sogno che si avverava.

Nella piazza Unità d’Italia affacciata sul mare e sulle Rive la folla è strabordante, nonostante il diluvio e la bora scura. Da terra, dal cielo e dal mare arriva l’Italia! I primi sono i bersaglieri e i fanti che entrano alle 5.25, alle 7 arrivano i Carabinieri, alle 11 è la volta degli aerei, seguiti poco dopo dall’incrociatore Duca degli Abruzzi e da tre cacciatorpediniere che entrano nel porto. E poi lei, la nave Vespucci. Infine a mezzogiorno altri fanti e bersaglieri giungono in città. Dieci anni ci sono voluti, ma quello è l’ultimo atto del lungo Risorgimento italiano. Incredibile che sia sconosciuto ai più.

Altre foto raccontano questa giornata gioiosa/drammatica per le zone A o B.

Commuove l’istantanea di un contadino sulle colline di Muggia, che dalla sera alla mattina deve abbandonare tutto a causa della beffa del confine spostato. Due agenti della polizia civile lo scortano via: lui piange, alza il braccio a salutare la sua terra. Succedeva che la casa restasse in Italia e i campi in Jugoslavia, o viceversa. In un’altra immagine uscita sui giornali dell’epoca una famigliola della zona A attende al confine l’arrivo dei parenti: hanno avuto “l’opzione” e lasciano la Jugoslavia. I cittadini della zona B potevano scegliere la cittadinanza italiana, conditio sine qua non per partire, ma poi a decidere erano le autorità jugoslave e bastava un’inezia per vedersi negare l’opzione, magari un cognome che a loro dire suonava slavo (in una regione in cui secoli di incroci e convivenze avevano modificato più volte i cognomi). Spesso la famiglia veniva disgregata, padre e figli con l’opzione e madri senza, o viceversa, così si scappava da clandestini, con il passatore, a rischio della vita. Un inferno che dura per tutti gli anni ‘60. Abbiamo esposto anche tanti cimeli che raccontano i due mondi separati: nelle cittadine diventate jugoslave gli scolari italiani diventano “pionieri di Tito” e indossano la titovka, il berretto con la stella rossa, come prima in Italia c’erano i Balilla; sempre dalla zona B c’è uno stendardo tricolore originale, di quelli che a Pirano o Capodistria venivano esposti alle finestre durante le manifestazioni di regime pro Tito: i tre colori italiani ma con la stella rossa in mezzo. Anche per la zona A abbiamo un tricolore italiano, fatto all’uncinetto: una donna ci ha lavorato per mesi, ha tessuto due metri di bandiera… Sono cose struggenti, abbiamo cercato di rendere i sentimenti da una parte e dall’altra.

Ma la seconda guerra mondiale a Trieste quando finisce?

Teoricamente il 30 aprile 1945, con la valorosa insurrezione armata di Trieste contro i nazifascisti, operata dai Volontari della Libertà guidati da don Edoardo Marzari e dal colonnello Antonio Fonda Savio: un pugno di giovani partigiani bianchi che fanno qualcosa di clamoroso. Ma già il giorno dopo, primo maggio 1945, piombano in città i titini, determinati a conquistare l’Italia almeno fino all’Isonzo: sono i 42 giorni di terrore e i partigiani del colonnello Fonda Savio si ritirano in clandestinità per non essere eliminati. Si deve anche alla loro breve azione se Trieste non seguì il triste destino di Pola o Fiume e non divenne jugoslava. I 42 giorni di occupazione titina finiscono il 12 giugno, dunque è il 12 giugno 1945 che la seconda guerra mondiale si conclude? No, perché per quasi dieci anni, come detto, Trieste è sotto dominazione straniera (anglo-americana) e ancora spera. Finisce allora il 26 ottobre 1954? Non proprio, soltanto nel 1975 con il Trattato di Osimo: il Memorandum di Londra aveva solo affidato l’amministrazione della zona B alla Jugoslavia ma non le aveva ceduto il territorio, mentre nel 1975 a Osimo (Ancona) con un accordo notturno e segreto tra Italia e Jugoslavia si dà copertura giuridica allo status quo. Trieste tutta si ribellò a quel trattato fatto alla chetichella e bilaterale, ci fu una sorta di rivoluzione politica, gli esuli che votavano in massa Dc la abbandonarono per la neo nata “Lista per Trieste”, esplosa come primo partito.

Si può affermare che questa parte d’Italia fu “laboratorio” della futura Guerra fredda tra due mondi?

Senza dubbio. Tito, stretto alleato di Stalin, con un’astuta capriola dal ‘48 rompe i rapporti con lui e ammicca all’America, presentandosi come lo “Stato cuscinetto” che proteggerà l’Occidente dal blocco sovietico. Ottiene tutto e tutto si può permettere. Il 6 settembre del ’53 raduna migliaia di persone a Okroglica (Sanbasso), a ridosso di Gorizia, arringando la folla come fanno i dittatori: “La questione di Trieste è a un vicolo cieco – minaccia –, l’unica soluzione è l’annessione”. I ferrovieri triestini pur di sabotare quell’adunata avevano fermato i treni, sciopero generale, ma i filotitini erano partiti stivati sui camion. Nella testa di Tito c’era l’idea della Grande Jugoslavia, che corrisponde all’idea della Grande Germania e della Grande Russia, ovunque una minoranza parlasse una lingua slava quella terra secondo lui era Jugoslavia, e sul Tagliamento nelle valli del Natisone vivono antiche minoranze di ceppo slavo... che ovviamente non avevano alcuna intenzione di farsi annettere.

Cosa resta di tutto questo nella Trieste di oggi?

Una cultura ricchissima e composita di lingue, sensibilità, religioni, sapori, storie diverse. Un carattere forte, di chi si è dovuto conquistare il suo diritto di esistere in nome dell’Italia. Ma anche la malinconia sottopelle, di una popolazione che per almeno un terzo è costituita da esuli istriani, lo sguardo sempre rivolto al di là del mare ad un mondo perduto a causa di una guerra subìta. Unici ad averne pagato il conto.

Cristicchi celebra la “città sospesa” tornata all’Italia

Uno spettacolo che è andato esaurito in tre ore: è quello che andrà in scena al Teatro Rossetti di Trieste il 26 ottobre, «gratuitamente, perché se fai una festa non chiedi agli invitati di pagare, e questa è una vera festa per la città, nei 70 anni dal suo ricongiungimento all’Italia», spiega Paolo Valerio, direttore del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia e regista dello spettacolo “Trieste 1954” di Simone Cristicchi. I testi sono appunto del “cantattore” romano e di Simona Orlando, le musiche di Valter Sivilotti, eseguite dal Coro del Friuli Venezia Giulia e dell’orchestra del Teatro Verdi. «È un testo bellissimo e delicato – continua Valerio –, nato dalla sensazione che Cristicchi ha di Trieste “rovente, spigolosa e prismatica”, come la definisce, dalla sua fascinazione per la città della bora, di Franco Basaglia, ma anche della Risiera di San Sabba e delle Foibe. È un percorso che passa per il Magazzino 18, il luogo in cui gli esuli istriani lasciarono le loro masserizie con l’esodo, per arrivare ai drammatici moti del ’53 in città, e finalmente al 26 ottobre».

Colpo di scena, nel nuovo spettacolo torna Persichetti, il simpatico archivista romano protagonista del celebre musical di Cristicchi Magazzino 18, che questa volta porta la moglie Adele in visita a Trieste e con lei scopre questa pagina dimenticata della “città sospesa”. Il tutto è impreziosito da brani musicali di repertorio (da Vola Colomba, che fu scritta proprio per Trieste ancora lontana, ai brani in dialetto del grande Lelio Luttazzi), oltre che da numerosi video e audio della fatidica notte di 70 anni fa messi a disposizione dagli archivi Rai.

«Tutto è doppio a Trieste, come la scontrosa grazia” nei versi di Saba – afferma Cristicchi nelle prime scene –: è una città “a doppio passo”, veloce e pratica, eppure a lungo immobilizzata. Ed è a doppio tempo”, con lItalia liberata e lei che per gli storici ha più liberazioni: dai nazifascisti, dalle truppe jugoslave, dagli angloamericani. Con lItalia che festeggia la fine della guerra nel 1945 e lei che lo fa nove anni dopo. E forse è questo che apprezzo di più dei triestini: che hanno imparato a vivere così, in questo equilibrio precario, fra un colpo di vento e laltro, restando in piedi in mezzo alla bufera degli eventi, affrontando con coraggio le raffiche improvvise della Storia».

In futuro “Trieste 54” potrebbe partire in tournée, «perché è una storia che riguarda tutta la nazione – afferma Valerio -. I commoventi filmati d’epoca dimostrano la passione con cui tutte le città d’Italia parteciparono prima all’ansia durante i moti popolari, poi al tripudio per il ritorno di Trieste, ovunque si fecero grandiose manifestazioni», ma per il momento lo spettacolo resta un evento unico nato per questo 26 ottobre e per chi quella notte c’era, e sarà seduto in platea: il teatro come risveglio della memoria e della coscienza, dunque, perché «oggi questa storia è dimenticata, anche io che sono veronese l’ho imparata quando sono arrivato a Trieste, è incredibile che la scuola non la insegni», conclude il direttore del Teatro Stabile. Che ha voluto celebrare l’anniversario inaugurando anche una terza sala, piccolo gioiello polifunzionale da 54 posti, attrezzato per ospitare piccoli spettacoli di prosa o musica e chiamato proprio “Sala 1954”. Non è un caso, infatti, che anche il Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia sia nato nel dicembre 1954: una coincidenza ricca di significato ideale oltre che culturale. È infatti uno dei primi teatri a fiorire dopo il disastro della seconda guerra mondiale, preceduto solo dal Piccolo Teatro di Milano – fondato nel 1947 dal triestino Giorgio Strehler e da Paolo Grassi – e pochi altri.

Altro appuntamento è “26 ottobre, un mare di ombrelli”, spettacolo dalla “doppia anima”: scritto in forma di radiodramma per le frequenze di Radio Rai, poi si trasformerà in spettacolo teatrale (in scena dall’1 al 10 novembre al Rossetti, regia di Paolo Valerio) fatto di recitazione, suoni, effetti, rumori. L’opera ricostruisce la notte tra il 25 e il 26 ottobre 1954 in un interno borghese dove le memorie e i sentimenti di tre generazioni si affollano nell’attesa di un evento che segna, con nove anni di ritardo, la fine della guerra. «È il modo migliore per unire i 100 anni della radio e i 70 di Trieste ricongiunta e del nostro teatro», conclude Valerio.