Letteratura. Il ghetto, metafora e radice della cultura ebraica
Il ghetto di Venezia
Pubblichiamo un estratto del libro Il sentimento del ghetto (Marietti 1820, pagine 200, euro 21,00) di Luca De Angelis. Il volume approfondisce il significato del ghetto ebraico, a partire dalla sua doppia anima: da un lato, è simbolo di discriminazione e segregazione e, dall’altro, rappresenta un guscio protettivo al cui interno la comunità ebraica può sopravvivere. Nel corso del tempo, questo luogo è cambiato trasformandosi in un spazio in cui a essere ricordati e preservati sono anche la cultura, la religione, un modo di vivere e di pensare. Il ghetto è diventato un luogo della memoria che ha permesso di conservare e diffondere un immaginario culturale, religioso e sociale, simbolo di una grande forza espressiva che ha plasmato anche lo scrittore ebreo moderno sia nell’anima che nella letteratura.
La parola «ghetto» quasi certamente vide la luce a Venezia nel 1516, quando si ebbe il confinamento degli ebrei in un quartiere obbligatorio ed esclusivo, in un isolotto che già in precedenza veniva denominato «Ghetto nuovo», dove sorgeva una fonderia di rame non più in uso, nei pressi della parrocchia di San Gerolamo. «La protezione fornita dal Ghetto rappresentò per gli ebrei un’esperienza nuova: essere “ebreo” per loro divenne un’esperienza inerente lo spazio. Il fatto che l’integrità del corpo fosse assicurata solo in un’area segregata, riservata ad altri corpi estranei, consolidò ovviamente i vincoli della comunità» e avvenne che «lo spazio-ghetto fu idealizzato in quanto comunità “rea-le”, alla maniera di uno spazio organico» (R. Sennett, Lo straniero. Due saggi sull’esilio, Feltrinelli, 2014). Da allora questo toponimo prese a designare un luogo circoscritto adibito a residenza coatta e di segregazione degli ebrei, con queste caratteristiche, diventando una parola simbolo della storia ebraica. Benché il termine «ghetto» fece la sua prima apparizione a Venezia, è tuttavia l’enciclica Cum nimis absurdum (1555) di Paolo IV che lo rese una vera e propria istituzione, quando si allestì sulle rive del Tevere, nel quartiere Sant’Angelo, il più malsano di Roma, un vicus judeorum. Nel configurare il ghetto, il grande storico dell’ebraismo Salo Wittmayer Baron utilizzò un efficace sintagma: «città nella città». In effetti si può dire che gli ebrei occupassero una posizione intermedia: erano integrati alla città, e tuttavia formavano un gruppo a parte, tollerato e protetto. Il concetto weberiano di Gastvolk, di «popolo ospite» si presta a rispecchiare la loro condizione. Il ghetto ha costituito il centro di un modello di vita e di pensiero ispirato dai principi giudaici; esso inoltre godeva di relativa autonomia, in quanto al suo interno vigeva la legge ebraica. La storia del ghetto combacia in gran parte con la storia e le vicende degli ebrei in diaspora. Quell’esperienza, che li ha resi vittime durante secoli di pregiudizi, di calunnie e di persecuzioni, ha lasciato un’impronta sul carattere degli ebrei, rafforzando in loro lo spirito di corpo comunitario, consolidatosi nell’assidua e stretta vicinanza della reclusione coatta, quando furono discriminati e costretti a vivere separati. [...] Per la comprensione del sentimento del ghetto è indispensabile aver presente la dialettica sottesa: ghetto voluto, ghetto subito. «Ghetto voluto», perché da parte ebraica questa istituzione fu reputata nel loro interesse. Nei secoli dell’esilio gli ebrei hanno sempre cercato volontariamente e di proposito, per un «istinto ereditario», di stabilire tra loro una vicinanza, una concentrazione residenziale, di abitare in uno stesso quartiere, di far comunità, per poter adempiere alle numerose funzioni e pratiche religiose. Questi spazi e questi mondi in miniatura (giudecche, vie degli ebrei, ecc.) si caratterizzarono sempre più come luoghi specificatamente ebraici, fatti propri, come evidenziava Daniel B. Schwartz, in un recente libro, anche da un punto di vista «spirituale e simbolico, creando le recinzioni rituali ( eruvim) che permettevano di trasportare oggetti nello spazio pubblico durante lo Shabbat, e dunque tracciando nelle vie i confini derivanti dalla halakhah [la legge ebraica]» (D.B. Schwartz, Ghetto. Storia di una parola, Hoepli, 2014). Schwartz ha osservato un aspetto assolutamente significativo, ovvero che il ghetto iniziò «a fare molta più presa sulla coscienza ebraica solo dopo l’emancipazione, quando venne in primo piano nel discorso degli ebrei e sugli ebrei». In effetti, fu solamente dopo che gli ebrei presero la via che conduceva fuori dalle mura (in Italia tra il 1848 e 1870) che la parola «ghetto» acquisì la rilevanza di uno Stichwort, una parola chiave ebraica, assumendo un’importanza sempre più crescente nell’animo degli ebrei, diventando «un luogo della memoria che si poteva usare come arma retorica e ideologica», conquistando «un ruolo centrale nell’immaginario ebraico, ruolo che, paradossalmente, non aveva mai avuto in un’epoca anteriore»; solamente in un secondo momento divenne «elemento costitutivo dell’identità, aggiungendosi a termini quali “esodo”, “esilio” e “diaspora” nella concezione dell’esperienza ebraica, in particolare l’esperienza della modernità», per cui fu soltanto a partire dall’Ottocento che il ghetto «si configurò come “metafora radice” dell’immaginario ebraico moderno» (D.B. Schwartz, Ghetto. Storia di una parola, Hoepli, 2014). Inevitabilmente, il ghetto come «metafora radice» fa la sua comparsa anche nell’immaginario dello scrittore ebreo, nell’anima e nelle forme della sua letteratura. In essa il ghetto si trasfigura allusivamente e si cristallizza in metafore e simboli dello spirituale ebraico, qui definiti ghettoismi, cui si dedica una speciale attenzione, proprio in ragione del fatto che questa «metaforologia ghettoica» concorre a ricreare letterariamente il ghetto perduto [...]. Nella scrittura l’ebreo ritrova se stesso. La sua identità, attraverso le instabilità esistenziali e le alterne stazioni della vita, si forma nell’atto dello scrivere e vive nello spazio letterario. Philip Roth diceva di dedicarsi alla letteratura con la convinzione che «l’obiettivo del romanziere ebreo» non fosse tanto di «forgiare nella fucina della propria anima la coscienza ancora increata della sua razza», in fieri e talora anche contraddittoria, quanto di trovare «ispirazione in una coscienza che è stata creata e demolita centinaia di volte solo in questo secolo» (P. Roth, Perché scrivere? Saggi, conversazioni e altri scritti 1960-2013, Einaudi, 2018). I momenti letterari rappresentano i luoghi privilegiati dove è possibile ritrovare rispecchiata l’anima della modernità ebraica, grazie alle prerogative e alle virtualità strutturanti dello scrivere, al precisarsi, in attenzione della vita, peculiare al raccoglimento della scrittura. Il pensiero e il momento della conoscenza sono sempre emozionali e l’attimo del sentimento è decisivo. Le emozioni passano e i sentimenti necessitano di essere coltivati con la letteratura. Per uno scrittore il linguaggio poetico è l’unico naturale e autentico, ma soltanto in presenza di un sentimento vero esso ha un effetto e può trasporsi in scrittura. Immettere nella propria opera i dati sentimentali della propria condizione umana è un movimento spontaneo e naturale per ogni scrittore. Nel momento in cui l’ebreo si dedica all’attività letteraria nolens volens non può che metterci necessariamente del suo, per l’appunto dell’ebreo, come sostiene Arnold Mandel. Lo scrittore ebreo esprime significativamente e in modo rappresentativo la specifica, nondimeno comune, variabile e particolare condizione dell’ebreo. La interpreta e la riproduce di pari passo con l’ebraismo, che a sua volta ha costantemente elaborato la situazione socioesistenziale in cui gli ebrei si sono trovati. La letteratura dell’ebreo è l’insieme di risposte che vengono date progressivamente alla sua condizione. Naturalmente, lungi dal riferirsi all’ebraismo in termini essenziali o come qualcosa di metastorico, in quanto «non può essere definito in base alla sua essenza perché non ha un’essenza », nondimeno «l’identità ebraica non è definita per sempre e statica, ma è dinamica e persino dialettica» (G. Scholem, Tre discorsi sull’ebraismo, Giuntina, 2005). In un autore ebraico la sua identità si elabora in relazione alla sua opera. «Tu sei ebreo e ti esprimi come tale», scrive Edmond Jabès (E. Jabès, Il libro delle interrogazioni, Elitropia, 1982). Il sentimento identitario si sviluppa e prende forma nella stessa pratica letteraria. Nella letteratura si rispecchia la sua condizione mediante modalità espressive, immagini, cifre stilistiche corrispondenti e derivate da essa, filiazioni psicologiche riconducibili alla sua esistenza, tra cui il sentimento del ghetto, il cui spirito è sopravvissuto anche dopo la loro apertura, e di cui proprio gli scrittori hanno offerto delle singolari espressioni letterarie d’antan.