Novecento. Il Gesù di Dreyer, incompiuto e così umano
Carl Theodor Dreyer
L'ultima scena è la più difficile da girare. Per il suo Gesù di Narazeth Franco Zeffirelli si decise quasi fuori tempo massimo, recuperando alcune sequenze originariamente destinate al Discorso della Montagna e ricorrendo così a una soluzione simile a quella già adottata da Pier Paolo Pasolini nel Vangelo secondo Matteo: film e serie tv, diversissimi sotto ogni altro aspetto, trovano dunque nel finale un inatteso punto di contatto. Dopo l’esplicita violenza che attraversa The Passion, invece, Mel Gibson si congeda con la levità del soffio vitale che svuota il sudario nel sepolcro, mentre in Jesus Christ Superstar tutto culmina in una canzone e nella versione cinematografica di Godspell – musical contemporaneo al precedente, meno noto e forse più interessante – ci sono i discepoli che corrono per le strade di New York portando il corpo morto di Gesù, svoltano dietro un angolo e scompaiono, come in un divino gioco di prestigio.
Da parte sua, un maestro indiscusso come Carl Theodor Dreyer la Risurrezione non la rappresenta affatto. Anzi, la voce fuori campo alla quale è affidata la conclusione del suo mai realizzato film su Cristo sembra addirittura escludere che la Risurrezione sia avvenuta: «Gesù muore, ma con la morte portò a termine l’opera iniziata in vita. Il suo corpo fu ucciso, ma il suo Spirito viveva». E sì che uno dei capolavori di Dreyer, Ordet. La parola (1955), era tutto incentrato su un miracolo analogo a quello di Lazzaro, compiuto questa volta dal visionario Johannes a beneficio della cognata Inger. Come giustamente ricorda il curatore Marco Vanelli nell’introduzione all’edizione italiana del copione di Dreyer ( Gesù. Il film di una vita, Iperborea, pagine 424, euro 19,50), il folle Johannes è una delle tante figurae Christi che si incontrano nell’opera del cineasta danese, da Giovanna d’Arco, la cui Passione è interpretata nel 1928 da una memorabile Renée Falconetti, a un’altra donna, la protagonista del testamentario Gertrud (1964), alla quale si richiama con insistenza Goffredo Fofi nella sua postfazione, ricordando tra l’altro come lo stesso Pasolini si fosse convinto a girare il Vangelo secondo Matteo solo dopo aver avuto la certezza che Dreyer avesse ormai rinunciato al suo Jesus.
In realtà, nel 1967 (un anno prima di morire all’età di 79 anni, e un paio di anni dopo l’uscita del film di Pasolini) Dreyer era ancora in trattativa con la Rai e fu in questa occasione che una copia della sceneggiatura venne data in lettura a un esperto biblista, il gesuita Carlo Maria Martini, che non mancò di segnalare il suo rispettoso dissenso. Integrata con il testo inglese disponibile online sul sito del Danish Film Institute, la traduzione italiana valutata da Martini è alla base del lavoro di Vanelli, che fornisce al lettore la più ampia ricostruzione possibile di questo Gesù che non è stato. Due le linee portanti della rivisitazione immaginata da Dreyer, che si allinea al racconto di Marco, saltando a piè pari i Vangeli dell’infanzia per esordire con il Battesimo nel Giordano. In primo luogo, Dreyer è preoccupato di ribadire l’ebraicità di Gesù, con l’intento dichiarato di allontanare dal popolo di Israele la responsabilità della Crocifissione.
Anche a costo di forzare il dettato neotestamentario, il regista fa ricadere l’iniziativa della condanna su un Pilato niente affatto dubbioso, raffigurato come membro di una élite militare assimilabile alla Herrenvolk tedesca e, per estensione, ai gerarchi del Terzo Reich. Una visione in parte debitrice degli scritti di Kaj Munk, il drammaturgo e pastore protestante autore della pièce da cui è tratto Ordet. In opere come Egli siede di fronte al crogiolo e Prima di Canne, Munk aveva contestato la tesi propagandistica del “Gesù ariano” e aveva tratto dall’antichità lo spunto per celebrare la resistenza all’occupazione nazista, fino a pagare con la propria vita, nei primi giorni del 1944, la dichiarata opposizione a Hitler. Ma il tratto più caratteristico della rilettura di Dreyer è un altro e coincide con l’esclusiva umanità di Gesù, presentato come taumaturgo dotato di straordinarie facoltà psicologiche.
La qualifica di “Figlio di Dio” assume un valore meramente simbolico e i miracoli vengono spiegati attraverso la magnetica forza di suggestione che Cristo riesce a sprigionare perfino a distanza. Per Dreyer, insomma, tutte le guarigioni delle quali danno conto i Vangeli sono disturbi psicosomatici che svaniscono grazie alla capacità di ascolto e di liberazione interiore espressa da Gesù. Deriva da qui la diffidenza verso l’evento della Risurrezione, che Dreyer sostituisce con un’umana, umanissima sopravvivenza del messaggio evangelico. Sarebbe stato un film su cui meditare e discutere, questo Gesù mancato. E sarebbe stato un film con bellissimi inserti apocrifi, come quello dedicato alla prostituta Ruth, la figlia peccatrice che torna dai genitori dopo aver ricevuto il perdono del Messia e lì, nella casa della sua infanzia, si immerge nel bagno rituale per riacquistare purezza. Se non una risurrezione, è una rinascita, e già rinascere non è poco.