Padova. Il fuoco sacro della terracotta
Un particolare della “Pietà” di Andrea Briosco detto il Riccio
A dispetto delle ventitré sculture esposte, che secondo i criteri che oggi definiscono quelli che la pubblicità chiama “grandi eventi” potrebbero far pensare a una mostra “piccola”, A nostra immagine– questo il titolo della rassegna (fino al 2 giugno), con un sottotitolo più esplicito: “Scultura in terracotta del Rinascimento da Donatello a Riccio” – rappresenta il risultato di un lavoro di ricerca che oltre a concludere il progetto “Mi sta a cuore” – sorta di I care rivolto alle testimonianze d’arte patavine che dopo la scultura lignea e la pittura su tavola approda ora alla terracotta –, espone opere recentemente restaurate, talvolta con nuove e clamorose attribuzioni o cambi di autografia. Una mostra di studio, dunque, con un catalogo importante per varie ragioni: last but not least, l’“atlante della scultura padovana in terracotta del Rinascimento” che conclude il volume, oltre a un notevole apparato fotografico e di schedatura delle singole opere. Il direttore del Museo Diocesano, Andrea Nante, artefice con Carlo Cavalli e Aldo Galli del concept dell’esposizione, ne riassume nel saggio introduttivo i nodi fondamentali: lo sviluppo della coroplastica – così è detta l’arte del modellato in terracotta – a Padova si spiega, oltreché per la disponibilità in area padana della materia prima, l’argilla, per la presenza in città, lungo un decennio, di Donatello impegnato per le opere della Basilica del Santo, presenza che era stata, ricorda Nante, preceduta da altri toscani: Michele da Firenze, già attivo nella bottega del Ghiberti, Nanni di Bartolo, che con Donatello si era formato nel cantiere del duomo di Firenze ed era approdato a Venezia nel 1424, Niccolò Baroncelli, che lavorò a Padova fino al 1443, quando arrivò in città Donatello portando con sé un campionario di invenzioni formali nella terracotta già sperimentate in alcune opere giovanili, il cui catalogo venne rimesso a punto da Luciano Bellosi, il quale, come ricorda Francesco Caglioti nel lungo saggio, fu molto osteggiato dalla comunità degli studiosi del Rinascimento italiano. Uno dei grandi meriti di questa mostra è la nuova luce che getta sull’opera di Giovanni de Fondulis, del quale viene presentato un San Rocco a figura intera inedito, ritrovato in una chiesetta di campagna, che introduce un altro e più stringente problema, ricordato da Nante: le terrecotte che ci sono pervenute sono solo una piccola percentuale di quelle prodotte all’epoca.
Particolare della “Madonna col Bambino” di Giovanni de Fondulis - .
Questo è dovuto a concause che si sono susseguite nei secoli: il rigorismo di una Riforma cattolica che guardò con sospetto a queste opere di scultura, in genere policrome, e ne favorì la dispersione se non la distruzione; la vendita o il sequestro delle opere in seguito alle soppressioni napoleoniche e durante il Regno d’Italia. Questo fece migrare molti capolavori in musei stranieri o in collezioni private grazie alla mediazione di antiquari compiacenti, conoscitori d’arte, affaristi e mercanti. Se da un lato questo vulnusfu di enorme gravità, si può anche pensare che in collezioni private, italiane e straniere, si trovino oggi opere di cui si ignora la collocazione. Ma questo è un compito che occuperà i ricercatori per molto tempo, e potrà dare sempre nuove scoperte. Se il nodo “interno” affrontato da questa esposizione può essere considerato quello di una rinnovata visione dell’ambiente patavino dell’epoca, il groviglio si sbroglia un po’ vedendo la quantità di opere assegnate alla mano del De Fondulis, la cui bottega era in concorrenza con quella di Bartolomeo Bellano, di cui è esposta la Figura femminile dolente già citata come sua agli inizi del Novecento nel Cicerone di Burckhardt, così come il Santo Francescano, costruito con la tecnica delle sezioni sovrapposte, la cui durezza espressiva dei panneggi e delle parti anatomiche evoca un realismo tutto tendini e ossa, mentre il Compianto su Cristo morto, recentemente restaurato anche nei colori, pare allontanarsi dallo stile bellaniano e forse tradire influenze nordiche (anche nell’impostazione prossima all’Imago pietatis). La prima opera di Giovanni de Fondulis qui esposta, la Madonna col Bambino in trono proveniente dalla chiesa di San Nicolò, risale ad anni successivi di almeno un decennio al ritorno di Donatello a Firenze nel 1453. Il timbro e lo stile addolcito risultano lievi e quasi inibiti nel tradurre un pensiero umano in una forma che parli la lingua del soprannaturale. Rivediamo all’opera lo scultore anni dopo in un’altra scultura dello stesso tema (chiesa di Pozzonovo), col bambino che sembra dimenarsi per attirare l’attenzione della mamma la quale invece fissa qualcosa oltre lo spazio della scultura; ben più matura nello stile la statua del Battista di collezione privata, dipendente forse di più da un confronto con Donatello (ma anche con Bellano). La dimensione naturalista e realista del De Fondulis si ritrova nella fisiognomica sofferta della Pietàdi Camponogara: suggestivo il concerto delle mani abbandonate del Cristo con quelle apprensive della madre che sembra volerlo riportare a se, nel proprio grembo. Col tempo anche la libertà espressiva del De Fondulis si riempie di ispirazioni quasi astratte, come quelle della Madonna proveniente dal monastero della Visitazione S. Maria che sorregge il figlio, ben pasciuto, quasi fosse sciolto da ogni vincolo alla forza di gravità.
La Madonna col bambino in trono delle Suore Maestre di S. Dorotea nella posa distesa del fanciullo mostra invece reminiscenze che ci riportano alla classicità. Un secondo nucleo di opere che affiancano altre di contesto sono quelle assegnate alla mano del Ricco, con la bellissima Pietà proveniente dalla chiesa di Santo Stefano a Due Carrare e il gruppo di sculture, riunite per l’occasione, col Cristo morto (chiesa di San Canziano) e due Marie dolenti (Eremitani), parti di un Compianto documentato da fonti antiche e citato già a metà del XVI secolo. Conviene tornare all’inizio. La mostra si apre con due opere, una in cartapesta e una in terracotta, che derivano da un modello donatelliano; e poi ci viene presentata la Madonna Vettori di Donatello, eccezionale prestito del Louvre, che fa subito intuire la forza interiore che lo scultore aveva maturato fin dagli anni giovanili con alcune Madonne in terracotta, restituitegli da Bellosi, nelle quali si avverte una particolare tensione nel rapporto fra i due protagonisti della scena, pensiero che chiama in causa un terzo personaggio, lo spettatore, cui si chiede di reagire a quanto d’insolito si realizza rispetto all’iconografia accreditata all’epoca. Su questo rimando al saggio di Caglioti, artefice l’anno scorso della mostra sul Verrocchio con l’attribuzione di una scultura a Leonardo da alcuni considerata pertinente; Caglioti evidenzia proprio questa mobilità di forme e gesti che esprimono emozioni e sentimenti tipici dell’esperienza umana; ma la scultura del Louvre, dice Caglioti, fa dello spettatore il quarto incluso: il terzo rimane nascosto ma ne percepiamo la presenza nello sguardo della Madonna e del bambino che punta oltre il perimetro dell’opera. E qui la terracotta, arte di una verità umile e popolare, vicina ai sentimenti dei devoti, simula il teatro, come già accadeva nelle due lastre di terracotta sulle quali Donatello rappresenta la Deposizione e la Crocifissione, opera oggi conservata al Victoria and Albert Museum.