Agorà

Pesaro. Il Rossini Opera Festival celebra la forza delle donne in amore e in guerra

Pierachille Dolfini lunedì 12 agosto 2024

Anastasia Bartoli in "Ermione" di Rossini al ROF di Pesaro

Se non è amore è guerra. Amore e guerra. E morte. Una guerra che è sì una delle tante che si sono succedute (e si ripetono, lezione non compresa della Storia). Ma una guerra che è (ancora più spesso e ancora più drammaticamente) interiore. Morire dentro, fa ancora più male. La guerra che combatte Ermione, umiliata da Pirro che le preferisce come moglie Andromaca, la vedova del nemico. La guerra di Bianca che ama Falliero, ma che sente il dovere di figlia verso il padre che la vorrebbe sposa di Capellio. O la guerra di Rosina che lotta per affermare se stessa e la sua libertà, femminista prima di tante nostalgiche sessantottine.

Donne che combattono sul palcoscenico del Rossini opera festival 2024. Edizione extralarge in occasione di Pesaro Capitale italiana della cultura. Quattro titoli anziché i classici tre “istituzionali”. Edizione che si è aperta nel ritrovato Auditorium Scavolini, palazzetto che (rimesso a nuovo dopo anni) riporta in centro città l’opera rispetto alla periferica Vitifrigo arena (che comunque resta palcoscenico per due dei quattro titoli). Dimensione pop – e Rossini lo è tanto – quella dei palazzetti che non può che fare bene a Pesaro. Dimensione pop da ritrovare insieme all’entusiasmo degli inizi – magari con un pubblico giovane perché ormai quello degli inizi è “cresciuto” in età dopo quarantacinque edizioni. Da far andare di pari passo con la riscoperta e la custodia del patrimonio musicale del pesarese. Che c’è. Perché il Rof resta “il” riferimento rossiniano per il mondo. Riscoperta – e compito di un festival è di proporre linee interpretative, essere avanguardia – che ora deve passare attraverso una rilettura registica, nell’oggi, di Rossini. La strada è segnata, il prossimo anno arriva Calixto Bieito per Zelmira poi tocca a Tobias Kratzer.

Strada imboccata quest’anno con Ermione affidata alla bacchetta di Michele Mariotti, direttore di casa e rossiniano doc, e alla regia di Johannes Erath. Che rilegge l’opera – tra le più belle e le più sperimentali di Rossini, unica nella sua vertiginosa costruzione, dimenticata dopo la prima di Napoli del 1819 e riscoperta, grazie al Rof, nel 1987 – come una serie tv. Estetica aggiornata ai giorni nostri. Dark. Cifra inconfondibile delle regie di Erath nel palco con cornici in fuga prospettica e scale irte sulle quali si consuma la tragedia – scene di Heike Scheele, costumi chiassosi di Jorge Jara. Coatta e volgare la famiglia di Pirro. Arricchiti, vincitori di un guerra che non ha lasciato traccia – la pietà che Omero mette nei suoi racconti è bandita. Perché in scena, tra epica e mito, ci sono gli eroi della guerra di Troia. Rossini li racconta con una musica tipicamente “rossiniana”, impossibile confondersi, ma anche ripensando le forme e costruendo un racconto serrato e teatrale nella perfetta alchimia di scene, arie, duetti e concertati. Musica restituita in tutta la sua grandezza e la sua bellezza unica da Mariotti – ogni dettaglio è soppesato, ogni colore cercato e trovato in un’efficacissima Orchestra sinfonica nazionale della Rai. E in un canto che ha in Anastasia Bartoli – voce, temperamento, istinto scenico – l’assoluta protagonista, Ermione che scrive la storia dell’interpretazione con un canto dove agilità e tragicità si fondono e si compenetrano. Enea Scala e Juan Diego Florez sono Pirro e Oreste, uno tutto istinto, l’altro tutto testa, musicalissimi entrambi nella scrittura impossibile che Rossini chiede ai due tenori. Erath svuota i personaggi della loro classicità e ne fa un campionario di umanità che possiamo trovare oggi sui social. Li scandaglia a livello psicologico in uno spettacolo ricco di simboli (anche di non facile e immediata lettura). Per poi ricostruirli da dentro. E presentarli nel tragico finale come icone di un mondo guidato dalla logica della vendetta.

Un mondo dove il lieto fine è solo un sogno. Oggi, 2024 di guerra e dolore, non può essere che così. “A tanto mio contento non presto fede ancor” canta Bianca. Ma Contareno, Falliero, Capellio hanno lo sguardo fisso nel vuoto. Immobili. Perché il lieto fine di Bianca e Falliero (lo vogliono raccontato così Rossini e il suo librettista Felice Romani nell’opera datata 1819, come Ermione) così come lo legge Jean-Loius Grinda è solo un sogno. Colpo di coda, unico colpo di teatro di uno spettacolo poco riuscito che il regista francese assesta come “morale”, al racconto rossiniano. Il lieto fine di Bianca e Falliero oggi resta un sogno. Il sogno della pace impossibile. Ad ascoltarla bene lo dice anche la musica di Rossini. Restituita con slancio da Roberto Abbado sul podio dell’Orchestra Rai. Abbado tiene le fila di un racconto musicale serrato, teatrale dove il canto scaturisce naturale del tessuto orchestrale. Nella grande lezione rossiniana che ancora una volta mette in campo Dmitry Korchak, Contareno che lascia il segno con una grande intelligenza musicale. La stessa che consente a Jessica Pratt e ad Aya Wakizono di uscire vincitrici dal confronto con Bianca e Falliero.

Guerra, quella di Rosina (una convincente Maria Kastaeva), ma anche tanti sorrisi (forse malinconici, vista la storia) nel Barbiere di Siviglia che torna al Rof nello spettacolo monocromo di Pier Luigi Pizzi con la direzione (spesso fuori stile e spesso sopra le righe) di Lorenzo Passerini. In stile, perfettamente, il Figaro di Andrzej Filonczyk e il Conte di Jack Swanson. Sorrisi, anzi risate sonore per un libretto tutto giocato su equivoci linguistici (e anche doppisensi… ottocenteschi) nell’Equivoco stravagante (ripresa che migliora, concentrandolo sul palco del Teatro Rossini, l’allestimento del 2019 di Moshe Leiser e Patrice Caurier) diretto con trascinante vitalità da Michele Spotti e affidato alle voci (una meglio dell’altra) di Maria Barakova, Nicola Alaimo e Carles Pachon. Storia dove un servo scaltro per scoraggiare un pretendente a sposare la sua padrona fa circolare la diceria che la ragazza in realtà è un uomo travestito. Specchio (tragicomico o forse solo tragico) questo Rossini del 1811, del nostro (olimpico) presente.