Agorà

IL FATTO. I «santi» dell’antimafia martiri?

Giorgio Agnisola domenica 10 aprile 2011
«Chiamare martiri quanti nel nostro tempo testimoniano la loro fedeltà a Cristo fino all’effusione del sangue a motivo della giustizia o dell’amore al prossimo o della difesa dei decisivi valori umani significa indicare  "moderni" modelli di santità». Così si esprimeva monsignor Cataldo Naro, che fu vescovo di Monreale e promotore nel 2005, un anno prima di morire, del progetto «Santità e legalità» per un impegno cristiano di resistenza alla mafia. Un’affermazione forte, che è stata ripresa, circostanziata e dettagliata, nel documento Cei Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno del 21 febbraio 2010, in cui si sottolinea che negli ultimi anni «luminose testimonianze... ribellandosi alla prepotenza della malavita organizzata hanno vissuto la loro lotta in termini specificamente cristiani». Nel documento vengono citati in particolare don Pino Puglisi, don Giuseppe Diana e il giudice Rosario Livatino, uomini coraggiosi «uccisi non per errore». Ad essi verrà dedicato un convegno di studi intitolato «Martiri per la giustizia, martiri per il Sud» che si terrà a Napoli domani e dopodomani, presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, sezione San Luigi, nell’ambito della settima Giornata di studio sulla Storia del cristianesimo, a cui parteciperanno tra gli altri Massimo Naro e Giuseppe Bellia, della Pontificia Facoltà della Sicilia, il giudice e scrittore Raffaele Cantone e Sergio Tanzarella, della Pontificia Facoltà Teologica di Napoli. Rosario Livatino fu ucciso il 21 settembre 1990 sulla statale 640 di Porto Empedocle per mano di quattro sicari assoldati dalla Stidda agrigentina, mentre si recava senza scorta in tribunale. «L’indicazione di Livatino al pari di don Puglisi e don Diana ha un grande valore reale e  simbolico – dice il giudice Raffaele Cantone –. Indica l’impegno civile come via percorribile della santità. Livatino aveva una ferma convinzione cattolica. Ma è per aver dato la vita nell’esercizio di una giustizia sociale che può essere considerato un martire. Ne può derivare un nuovo approfondimento su cosa possa significare per un cattolico svolgere un lavoro delicato e difficile, quale può essere quello di un magistrato impegnato a combattere le mafie». Ma in che senso è possibile parlare oggi di martirio cristiano? Risponde Massimo Naro: «Premesso che il cristianesimo ha esso stesso un certo risvolto civile, in quanto è situato storicamente dentro la "città" degli uomini, occorre formulare una risposta che non dia adito all’inflazione del concetto cristiano di martirio estendendolo tout court ad ogni morte eroica possibile e immaginabile e, al contempo, non divarichi lo stesso martirio cristiano rispetto alla morte pazientemente e coraggiosamente subita da chi pratica valori importanti come la giustizia, la pace, il bene comune. Per far ciò diventa urgente, ancor più che estendere il "concetto" di martirio, dilatare l’identità dei martiri, considerandoli come coloro che, oltre a dare la vita per un ideale pur nobile e persino "per" qualcuno, muoiono "con" Qualcuno, venendo coinvolti nel martirio stesso di Cristo. In tal modo si arriva a comprendere – come aveva già capito san Tommaso nel medioevo e come ha gridato Giovanni Paolo II ad Agrigento nel 1993 – che il martire cristiano non è chi dà la vita soltanto a motivo della fede, come il martire civile non è soltanto chi viene ucciso per la giustizia». Don Giuseppe Diana venne assassinato da due killer alle 7.30 del 19 marzo 1994, giorno del suo onomastico, nella sacrestia della chiesa di San Nicola di Bari a Casal di Principe, nel casertano,  mentre si accingeva a celebrare la messa. Per quel delitto Sergio Tanzarella chiama in causa la responsabilità sociale dei cristiani, intimamente connessa con quella religiosa: «È stato un doppio omicidio quello di don Diana, che fu ucciso non solo dalla camorra, ma anche da una politica locale che conviveva senza problemi con essa e da una complessiva indifferenza di una maggioranza della società rassegnata al dominio camorristico. Di don Peppino si tentò poi di uccidere anche la memoria attraverso le calunnie che cercarono per anni di attribuire la morte ad altre cause in luogo del suo costante e limpido impegno sociale e cristiano». Don Pino Puglisi fu assassinato il 15 settembre 1993, anch’egli nel giorno del suo compleanno, il 56°, davanti al portone di casa. Fu definito un prete anti-mafia. In realtà egli, pur ribadendo la sua condotta contro la mafia, non cessò mai di invocare la conversione dei mafiosi. «Di Pino Puglisi resta luminosa l’azione pastorale, condotta con disarmante mitezza nella quotidianità – dice Giuseppe Bellia –, lasciandosi guidare dall’insegnamento sapiente della parola di Dio. Si preparò all’incontro con la morte chiedendo perdono, non minacciando vendetta e senza mostrare alcuna superiorità morale sull’atteggiamento ingiusto e offensivo dei suoi persecutori. Gridare contro l’ingiustizia non ci rende giusti, mentre saper riconoscere e accettare la propria debolezza ci permette di congiungere la verità che germoglia dalla terra con la misericordia che si affaccia dal cielo».