Cinema. Il dramma del caporalato interroga Venezia
Salvatore Esposito e il piccolo Samuele Carrino in “Spaccapietre” dei fratelli De Serio, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia
L’inferno esiste e brucia vite nei campi assolati del Sud, ma non solo, e lo vivono centinaia di migliaia di braccianti sfruttati per portare cibo sulle nostre tavole: un argomento scomodo per le nostre coscienze e per gli interessi delle grandi multinazionali dell’alimentare. E se negli anni 60 e 70 il cinema si occupava delle lotte nelle fabbriche nell’Italia del boom, è giunta l’ora che torni a guardare all’agricoltura e alla terra, ai contadini e agli allevatori che non hanno mai alzato la voce. Come quella di Gavino Ledda, l’autore di Padre padrone, che dà volto dolente e duro a un pastore legato all’etica della natura, violata dalla modernità, in Assandira di Salvatore Mereu (nelle sale dal 9 settembre) passato al Lido Fuori Concorso. Mentre le Giornate degli Autori, alla 77ª Mostra del Cinema di Venezia, portano due film 'paralleli', Il Nuovo Vangelo di Milo Rau che racconta la lotta per i diritti dei braccianti africani nel materano, e adesso Spaccapietre dei fratelli Massimiliano e Gianluca De Serio (nelle sale da ieri) prodotto da Sarraz Pictures e Rai Cinema. I registi pongono l’accento sullo sfruttamento anche dei braccianti italiani, raccontando la discesa agli inferi di un padre di famiglia nei campi del tarantino.
«Lo spunto arriva da un fatto di cronaca di qualche estate fa, la morte sul lavoro della bracciante pugliese Paola Clemente, e dall’assurda coincidenza con la morte di nostra nonna paterna, deceduta lavorando anche lei come bracciante sotto caporale, sempre in Puglia ma nel 1958. Il tempo sembra non essere passato» raccontano i due gemelli quarantenni, già autori del film Sette opere di misericordia, che nella loro carriera di documentaristi, cineasti e autori teatrali hanno sempre puntato l’obiettivo sugli ultimi, a partire dai rom del loro primo lavoro sulla baraccopoli del Platz. Protagonisti di Spaccapietre sono Giuseppe (Salvatore Esposito, il Genny Savastano in Gomorra) e suo figlio di dieci anni Antò (Samuele Carrino). L’uomo è disoccupato da quando un incidente sul lavoro in cava lo ha reso cieco da un occhio, mentre il bambino sogna di fare l’archeologo. Il loro dramma inizia quando Angela (Antonella Carone), moglie e madre amatissima, perde la vita stroncata da un malore durante il lavoro. I due sono costretti a lasciare la propria casa, in un paesino pugliese, e a cercare lavoro e alloggio proprio presso i padroni della masseria in cui la donna ha perso la vita. I due da una vita semplice, ma serena, finiscono così a vivere in una baraccopoli fatta di tendoni di plastica ai margini dei campi e iniziano la loro dolorosa discesa nei gironi infernali dove immigrati e italiani poveri sopravvivono in condizioni disumane, quasi in schiavitù. E dove se qualcuno muore, sparisce in fretta gettato in un fosso. A portare una luce di calore e umanità è Rosa interpretata dalla brava attrice teatrale Licia Lanera (Rosa era il nome della nonna dei De Serio), una lavorante costretta anche a subire le molestie di uno dei padroni.
I De Serio raccontano, sì, la realtà, ma con luci oscure e immagini an- che crude che evocano archetipi ancestrali, lavorando più per suggestioni che con le parole. Così, nella terra che ha conosciuto gli splendori della Magna Grecia, il bonario Giuseppe promette al piccolo Antonio di riportare indietro la madre dagli inferi, come Orfeo con Euridice, per regalargli un futuro migliore. «Come il padre di Giuseppe nel film, anche nostro nonno paterno faceva lo 'spaccapietre', prima di partire negli anni ’60 per Torino e diventare operaio Fiat – raccontano i due registi –. Abbiamo quindi immaginato la storia di un padre e di un figlio che fanno un percorso che, in fondo, è il nostro tentativo di recuperare l’immagine di nostra nonna, mai conosciuta. Quando è mancata, a causa dell’aborto spontaneo di due gemelli mentre lavorava nei campi, nostro padre aveva appena 10 anni: la stessa età di Antò, il bambino del film». Il film dei De Serio affronta i temi dell’amore tra padri e figli, della morte, della violenza, della paura, della vendetta. «Il film è dunque anche l’immersione in questa realtà nascosta eppure radicata nelle nostre terre, dove governano violenza e sfruttamento nell’indifferenza comune » aggiungono. Un mondo fatto di soprusi che incidono sull’animo oltre che sul fisico delle vittime, rappresentate con umanità da Esposito: «Ci sembrava fosse perfetto per incarnare un uomo che si porta dentro una rabbia ancora inespressa e un senso di colpa per aver perso il lavoro in contrasto con la tenerezza con il piccolo Antò». È anche un invito alla responsabilità dei consumatori, quello che lanciano i De Serio, che per il loro film si sono basati sulle inchieste di Leo Grande, e quelle di Donato Palmisano e Yvan Sagnet in Ghetto Italia, oltre ad «aver stretto le mani delle persone di cui parlavano, incontrandoli sul posto. Noi – aggiungono – tutti i giorni mangiamo frutta e verdura che sappiamo venire da certe situazioni, ma ci piace far finta di non saperlo. Un cambiamento a livello di consapevolezza può avvenire solo attraverso l’accettazione del legame che c’è tra questo mondo e la nostra vita quotidiana».