C’è chi, essendoci nato, vive e scrive tutti i giorni di un «Messico napoletano» (in realtà ricordiamo a tutti che non lo fa soltanto Roberto Saviano) e c’è chi invece come Malcolm Beith dagli Stati Uniti decide di trascorrere tre anni della sua vita nella 'gomorra' della Sierra di Sinaloa per indagare sull’inferno dei narcotrafficanti messicani. Beith, armato solo di curiosità e taccuino, con le scarpe consumate dell’inviato di guerra (è stato anche in Iraq), è andato a toccare con mano quel Messico oscuro e malavitoso, stando però molto attento e non scottarsi con il fuoco delle braccia armate del terrificante Joaquin Archivaldo Guzmàn Loera, alias El Chapo. Il famelico 'tarchiato' (traduzione di Chapo), uno dei maggiori criminali in circolazione che «Forbes » colloca anche al 41° posto tra gli uomini più potenti del mondo, per via del suo conto corrente miliardario. Ricchezze accumulate con l’oro bianco, la 'coca', che da Sinaloa fa scorrere a fiumi questo re del malaffare, evaso nel 2001 dal penitenziario di Puenta Grande dove avrebbe dovuto scontare una pena di 20 anni di reclusione. E invece è lassù nel canyon inaccessibile, libero e incontrastato nel suo regno. Una taglia da 5 milioni di dollari pende sulla testa di quest’uomo che tutti vedono e conoscono, ma che nessuno ha il coraggio di sfidare.Migliaia di persone sono già cadute nella guerra scatenata da El Chapo e 45 giornalisti come Beith, che si erano avvicinati troppo alle fiamme del suo inferno, sono rimasti bruciati per sempre. In uno scenario di terrore e corruzione che coinvolge servizi segreti e squadre investigative internazionali, l’unica denuncia coraggiosa è stata quella dell’arcivescovo di Durango, Hector Martinez Gonzalez, che non vuole arrendersi alla scandalosa libertà d’azione concessa all’inafferabile El Chapo. Uno Zorro maligno, smascherato finora solo dal libro-inchiesta di Beith
L’ultimo narco (Il Saggiatore). Il giornalista americano, con la sua guida, Carlos, ha cercato di arrivare il più vicino possibile a questa fonte inesauribile di criminalità.
Al termine del suo viaggio nella notte di Sinaloa che idea si è fatto de El Chapo?«Dopo essermi documentato a lungo su di lui e sul suo giro di affari posso dire che si tratta di un uomo molto scaltro, un calcolatore. È un uomo di strada, sa esattamente come manipolare le persone e come corrompere le autorità. Potrebbe essere la reincarnazione del diavolo, così come tanti lo definiscono. E non lo dico certo per glorificarlo, ma perché penso che la sua sia veramente un’esistenza diabolica, in un contesto come quello messicano».
Un contesto in cui, leggendo il suo libro, sembra si muova praticamente indisturbato.«El Chapo, lì nella Sierra, con lo spaccio della droga ha costruito un impero multimilionario, quindi il suo potere è prettamente economico. Questo nonostante il governo messicano abbia compiuto un grandissimo sforzo nel contrastarlo. Un dato di fatto non certo trascurabile».
A quanto ammonta l’indotto del narcotraffico in quelle terre di malaffare?«Messico e Colombia con il narcotraffico guadagnano dai 19 ai 40 miliardi dollari. Denaro sporco che viene poi reinvestito in altre attività criminali, con la possibilità di entrare in contatto e fare affari con altre organizzazioni internazionali. A mio parere, uno dei pericoli principali di cui spesso non si parla è la globalizzazione della criminalità organizzata».
Una minaccia che a quanto pare non si riesce a bloccare.«Controllare il traffico è una cosa, bloccarlo è impresa molto difficile. Riuscire a far crollare un boss come El Chapo è l’obiettivo primario e devono riuscirci prima che il suo potere debordi. La piaga del narcotraffico comunque si allarga grazie anche all’appoggio che i governi forniscono ai 'signori della droga'. Gli Stati Uniti di fatto non li appoggiano, ma permettono però alle gang di operare. La guerra del narcotraffico negli Usa riguarda soprattutto la 'gestione del problema' e non l’arresto dei grandi capi. Uno come El Chapo, un artista della corruzione, negli Stati Uniti non potrebbe esistere. In Europa, in Asia o in Australia di sicuro non tollererebbero un uomo simile».
El Chapo e la sua banda può ricordare certi boss della criminanilità organizzata italiana?«Il codice del silenzio, l’omertà diffusa, avvicina la sua organizzazione a quelle della criminalità italiana. Ci sono però solo degli aspetti speculari che possono assimilare le due realtà. Il Messico esporta droga in Europa dove gruppi locali si occupano del commercio, ma non troverete mai uno spacciatore messicano per le strade di Napoli».
All’ultimo Festival del giornalismo di Perugia qualcuno l’ha presentato come il 'Saviano del Messico'. Si ritrova nell’accostamento?«Io sono una persona curiosa e mi piace scoprire sempre il perché delle cose. Quando ero in Messico ho visto come viveva la gente e sono andato in profondità. Ma non posso considerarmi un oppositore della criminalità mondiale. Saviano è un oppositore nella sua realtà, perché è lì che è nato e cresciuto. Ho letto Gomorra e trovo che sia un bellissimo lavoro sulla letteratura della mafia. Saviano al di là di quello che si scrive e si pensa ha rischiato e rischia la vita, denunciando fatti e persone apertamente. È un uomo coraggioso e spero che continui così, con coraggio e curiosità, a raccontare gli aspetti torbidi della società in cui vive e opera».
Anche lei vive sotto scorta?«Non mi sento minacciato e la mia vita per fortuna non è cambiata da quando ho pubblicato questo libro su El Chapo. Ma conosco tanti giornalisti messicani che per inseguire la verità vivono sotto costante minaccia di morte. Sono professionisti che ammiro e che vedono il giornalismo come me: come impegno civile e come mezzo importante per informare il popolo».
La sua missione in Messico si è conclusa o pensa che ci sarà una seconda puntata?«Se continuerò, sarà soltanto per mettere pressione al governo in questa lotta. Il popolo messicano è terribilmente spaventato e confuso. In questi ultimi quattro anni 35mila persone sono state uccise nella guerra della droga. Purtroppo non credo che il lavoro del giornalista sia così d’impatto e soprattutto incida come vorremmo. I governi lavorano e vanno per la loro strada, il nostro compito però è di non smettere di indagare e di divulgare. Io voglio che il mondo sappia che cosa sta accadendo laggiù... Confesso però che oltre a queste storie di violenza umana, mi piacerebbe anche dedicarmi ad altri soggetti. Magari scrivere libri che i miei figli, quando un giorno ne avrò, possano leggere e trovarci dentro un mondo migliore e meno violento di questo in cui viviamo».