Memoria. Jean Paul Habimana: per il mio Ruanda è tempo di riconciliazione
Jean Paul Habimana
«Iye tubatsembatsembe!, Iye tubatsembatsembe! » (Uccidiamoli tutti!, Uccidiamoli tutti!). Dopo tanti anni quelle grida terribili risuonano ancora nella mente di Jean Paul Habimana. In quel giorno di fine aprile 1994 la parrocchia di Shangi, nella diocesi ruandese di Cyangugu dove aveva trovato rifugio insieme alla sua famiglia e ad altre persone di etnia tutsi, fu assediate dalla milizia paramilitare hutu degli Interahamwe. Erano armati fino ai denti con fucili, granate, mazze, machete e la loro furia omicida non si fermava neanche di fronte ai luoghi sacri. All’epoca Jean Paul aveva solo dieci anni e quel giorno la sua vita cambiò per sempre. «Iniziai a correre per salvarmi ma fui travolto dalla folla in fuga e inciampai. Mi ritrovai faccia a terra, mi caddero addosso i corpi dei fuggiaschi colpiti. Rimasi immobile, sotterrato dai cadaveri per un tempo che mi parve infinito. Chi chiedeva aiuto veniva freddato all’istante». Se oggi Jean Paul Habimana può raccontare la sua terribile esperienza di sopravvissuto al genocidio del Ruanda lo deve al provvidenziale aiuto di Maria, una donna hutu che lo nascose in casa sua prima di portarlo nel campo profughi di Nyarushishi, dove rincontrò anche sua madre. Fu la prima scintilla di speranza che riuscì a scorgere in quell’orrore. Al campo ne seguirono altre: «Non c’era quasi niente da mangiare e mancava l’acqua ma ricordo alcune mamme che si privavano di parte del poco cibo che avevano per darlo ai bambini rimasti senza genitori», ci spiega.
La storia autobiografica che racconta la lotta per la sopravvivenza e la “seconda vita” di Jean Paul Habimana è una delle otto finaliste del 36° premio Pieve Saverio Tutino indetto dall’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Santo Stefano. Il vincitore sarà annunciato domenica 20 settembre nel centro della cittadina in provincia di Arezzo, all’ombra di quel piccolo Museo del Diario che da quasi quarant’anni conserva i diari, le memorie e gli epistolari degli italiani. Jean Paul Habimana è arrivato in Italia nel 2005 per proseguire gli studi in seminario che aveva iniziato nel suo Paese. «Quando venivano a ucciderci ci mettevamo a cantare e a pregare Dio. Lo supplicai di salvarmi promettendogli che da grande mi sarei fatto prete perché volevo aiutare il popolo ruandese a vivere nella fratellanza, non potevo vedere quelle persone così vicine a noi che venivano a ucciderci. Entrai per la prima volta in un seminario minore a tredici anni, dopo esser scampato al genocidio quasi per miracolo».
Habimana intraprende allora un percorso di studio e di riflessione sul genocidio che lo aiuta a superare quel periodo infernale, a comprendere che ogni ruandese, sopravvissuto o carnefice, è stato a modo suo vittima di quei mesi terribili del 1994. Centinaia di migliaia di vittime in prevalenza uomini, donne e bambini di etnia tutsi, oltre un milione e mezzo di sfollati: un’ecatombe di dimensioni epocali. Le traiettorie talvolta imperscrutabili del destino lo portano poi in Italia, dove per tenere fede alla promessa fatta a Dio decide di proseguire gli studi di filosofia e teologia presso il Seminario Arcivescovile Pio XI di Reggio Calabria. Finché, quattro anni dopo, non decide di interrompere la strada verso il sacerdozio. «Ho compreso che quella non era davvero la mia strada ma quel debito continuo a sentirlo ancora oggi», ci racconta al telefono da Milano, dove vive oggi. «Ho deciso che non sarei più diventato prete ma avrei insegnato al popolo ruandese ad amarsi. Questa è la promessa che ho fatto a Dio. Mi ha ferito troppo vedere quelle persone che credevo fossero i nostri vicini, i nostri amici, diventare da un momento all’altro i nostri più acerrimi nemici. Rendermi conto che dall’oggi al domani, e senza alcun motivo, volevano farci a pezzi». Nel 2009, all’età di venticinque anni, Jean Paul Habimana abbandona definitivamente il seminario ma resta a studiare in Italia per laurearsi in scienze reli- giose. Poi comincia a insegnare religione nelle scuole italiane e trova finalmente la forza per raccontare quello che gli è accaduto. «Nei primi anni in Italia non ho mai parlato con nessuno del genocidio. Sono stati i miei studenti a sollecitarmi e a darmi il coraggio per farlo. Mi sono reso conto che ricordare aveva una funzione catartica, mi aiutava ad andare avanti, oltre a essere utile per loro».
Oggi, oltre alla scuola, a dare un senso compiuto alla sua seconda vita c’è anche Marie Louise, la donna con la quale ha deciso di sposarsi e di creare una famiglia. Il loro matrimonio, dal quale è nato Samuel, di padre tutsi e madre hutu, è un segnale concreto della riconciliazione del popolo ruandese. «Ci siamo conosciuti da ragazzi, ai tempi del liceo, e ci siamo ritrovati anni dopo, quando sono uscito dal seminario. Sapevo che era originaria di una famiglia hutu ma il genocidio non ha scalfito il nostro legame, siamo ruandesi e basta. Anche se – ammette – inizialmente il nostro legame si è scontrato non con l’ostilità ma con la diffidenza di molti. Non è affatto scontato che un sopravvissuto si unisca in matrimonio con un rappresentante dell’altra etnia. Ma entrambi abbiamo avuto un’infanzia tragica e in un certo senso anche Marie Louise è stata una vittima di quello che è accaduto, anche se aveva soltanto sei anni all’epoca del genocidio, perché ha vissuto le conseguenze sulla sua pelle. In anni recenti siamo tornati in Ruanda insieme e adesso anche le nostre famiglie hanno finalmente superato le perplessità iniziali, a dimostrazione che le ferite del passato restano ma non condizionano più la vita quotidiana del mio Paese». Ma a oltre venticinque anni di distanza è ancora assai difficile dare una spiegazione razionale a quell’orrore che segnò la fine del XX secolo.
Dopo essersi salvato, Jean Paul Habimana ha cercato di comprenderlo con l’aiuto degli anni trascorsi in seminario, attraverso un lungo confronto con Dio, ma ammette di non esserci ancora riuscito. «L’unica spiegazione razionale che sono riuscito a trovare riguarda la fragilità del mio popolo. Purtroppo i ruandesi sono privi di radici culturali e hanno vissuto a lungo nella paura, avendo subito un lavaggio del cervello da parte dei colonizzatori belgi. Sono quindi un popolo facilmente manipolabile da politici senza scrupoli, che hanno trovato un terreno fertile sul quale fare proseliti promuovendo le teorie razziali. La politica del partito unico aveva fatto passare l’idea della divisione netta tra le due etnie. L’accesso agli studi superiori, ad esempio, era contingentato per i tutsi, e ciò rappresentava un’ingiustizia generalizzata». Lo stesso Habimana, però, ammette che questo non basta a spiegare razionalmente ciò che è accaduto in Ruanda: «Ancora oggi continuo a non capire come un essere umano possa considerare suo nemico un altro essere umano del suo stesso popolo. Ma purtroppo ho visto con i miei stessi occhi che è possibile ed è anzi molto facile che possa accadere quando le persone smettono di pensare con la propria testa».