La politica ecclesiastica dell’Italia, dall’Unità ad oggi, avrebbe tradito il progetto di «Libera Chiesa in libero Stato» di Cavour e anche i Concordati con la Santa Sede, quello del 1929 e quello «nuovo» del 1984, su questioni essenziali, la famiglia, la scuola, il sostentamento del clero, avrebbero posto la Chiesa in posizione di «predominio» per la debolezza della nostra politica. Queste le considerazioni critiche, rivolte all’attualità, che alcuni recensori (tra cui Sergio Romano) hanno ritenuto di poter ricavare dalla lettura del corposo e documentato volume dello storico Roberto Pertici Chiesa e Stato in Italia: Dalla Grande guerra al nuovo Concordato 1914-1984 (Il Mulino, pp. 892, euro 55). L’autore in realtà ribatte a quest’interpretazione, riduttiva rispetto al suo lavoro che non porta affatto a privilegiare la linea della «separazione » rispetto a quella della «conciliazione »; la lezione stessa della nostra storia, partendo da Cavour, può aiutare a comprendere che non servono forzature o schematismi ideologici. «Cavour – attacca il professor Pertici – proponeva una politica ecclesiastica completamente nuova nell’Europa del suo tempo. Fino ad allora, infatti, le posizioni di privilegio tradizionalmente riconosciute alla Chiesa si coniugavano con un attento controllo dello Stato nella vita e anche nelle vicende della Chiesa stessa. Partendo dall’esperienza americana, letta attraverso Tocqueville, Cavour metteva al centro della sua proposta politica il problema della libertà religiosa che egli connetteva col separatismo. Il suo era un separatismo 'amico della religione', che non escludeva il ricorso a trattative (e tentativi ci furono) per arrivare a un accordo complessivo con la Santa Sede su 'questione romana' e politica ecclesiastica. Ma negli anni successivi emerse un separatismo meno benevolo (si potrebbe dire ostile), che finì col prevalere. Molti settori della sinistra storica e anche di certa destra risorgimentale ritenevano infatti necessaria una politica che puntasse a ridimensionare la presenza cattolica nella società italiana. D’altronde è difficile pensare che Pio IX, già dopo l’occupazione di parte del suo Stato e poi di Roma, si dimostrasse disponibile a una trattativa. La stessa legge delle «guarentigie» del 1871, che pure garantiva il pieno controllo del Vaticano e una indubbia libertà di governo, era ai suoi occhi un atto unilaterale; non aveva alcun carattere pattizio e quindi non pote- va essere accettata dalla Chiesa. Toccò attendere il 1929 perché la 'questione romana' fosse definitivamente accantonata con il Trattato e il Concordato ».
Ciò che non era stato possibile con l’Italia liberale, si sarebbe però realizzato con il regime fascista. Un successo per Mussolini. «È la Grande guerra che avvia il momento di svolta nei rapporti tra lo Stato e la Chiesa. La quale non attese Mussolini per intraprendere il cammino della conciliazione. Già nel 1919, con Orlando presidente del Consiglio, si era arrivati a un passo dalla conclusione e le trattative proseguirono con Nitti e Bonomi. Certo, alla fine, fu Mussolini a concludere. Ma – raramente – si ricorda un episodio significativo: pochi mesi dopo l’11 febbraio, la Santa Sede autorizzò la pubblicazione sulla r ivista Vita e pensiero di ampi stralci del diario delle trattative scritto dall’ormai cardinale Cerretti, che ne era stato uno dei protagonisti; si voleva sottolineare che i Patti lateranensi erano stati stipulati con lo Stato e non con il partito al potere. Il regime fascista, nel breve e nel medio periodo, si avvantaggiò non poco della fine della 'questione romana'. Ma sanzionò anche l’esistenza di un altro potere che non sarebbe mai riuscito ad assorbire. Il rapporto tra il movimento cattolico e il regime è molto più complesso di quanto talora si continua a ripetere ed è riduttivo confinare la Conciliazione ad un momento (per quanto importante) della storia del fascismo: essa va collocata nella storia di lungo periodo dell’Italia contemporanea».
Resta il fatto che in campo cattolico non mancarono voci autorevoli – da De Gasperi a Sturzo, a Montini – critiche soprattutto sul Concordato. «Soprattutto De Gasperi inizialmente mostrò la preoccupazione che si arrivasse a un connubio tra il fascismo e i vertici della Chiesa. Ma il rischio fu successivamente superato proprio dal problematico evolversi dei rapporti. D’altronde i Patti del 1929 furono gradualmente accettati anche da gran parte dell’antifascismo. Nell’agosto 1938 ci fu un incontro in Svizzera tra un monsignore di Curia e due esponenti del Partito comunista in esilio: questi ultimi rassicurarono il loro interlocutore che non avrebbero messo in discussione il trattato, ma solo il Concordato. Posizione che nel 1943 sarebbe stata riconfermata da Giorgio Amendola al direttore dell’Osservatore romano . Però è significativo che, alla vigilia delle elezioni del 2 giugno 1946, nessun partito si sia pronunciato per l’abolizione del Concordato. Queste posizioni erano dovute al prestigio e all’autorevolezza che la Chiesa aveva acquisito durante i tragici anni della guerra e al ruolo ormai centrale che la Dc rivestiva nel panorama politico italiano».
La sua ricerca si chiude con il «nuovo» Concordato. Come lo giudica? «Certamente questo testo, frutto di lunghissime trattative tra la Santa Sede e il governo italiano, è molto diverso da quello del 1929. Ha realizzato un decisivo adeguamento costituzionale in materie delicate nelle quali non erano mancati forti contrasti (matrimonio, sostentamento del clero, scuola) e salvaguarda con più forza il principio del pluralismo religioso. Con la riforma del Concordato si apre una fase diversa, con problemi che sono ovviamente nuovi ma che debbono essere affrontati dalle due parti in un’ottica collaborativa, con il contributo responsabile delle forze politiche e culturali laiche e cattoliche».