Musica. Il nuovo album di Cesare Cremonini è un colossal
Il cantautore Cesare Cremonini
Si intitola Alaska baby (Universal Music) ed esce domani, 29 novembre, il nuovo album di Cesare Cremonini. Non è solo un album di canzoni: il concept, molto strutturato, è infatti unito a un vero e proprio progetto, iniziato un anno fa quando il cantautore partì dai Caraibi per arrivare in Alaska, attraversando l’America, passando da Nashville, Memphis, El Paso, Los Angeles e poi risalendo la costa, alla ricerca di se stesso per riempire il “vuoto dello scrittore”. Da tutto questo è stato prodotto anche un documentario molto spettacolare, che uscirà prossimamente su Disney+ e che testimonia alcuni momenti significativi del viaggio e importanti per la nascita delle canzoni.
È un “colossal”, il disco più ambizioso di Cremonini. Un album maturo e ispirato, prodotto assieme ad Alessandro De Crescenzo, Alessio Natalizia e Alessandro Magnanini, in cui la storia della popular music viene espressa e “utilizzata” con attitudine internazionale. Arriva quando deve, con tutto il carico di realismo che dà in dotazione un viaggio di questa portata.
Il concetto centrale sembra essere quello del confine: della fine e dell’inizio come elementi di esperienza e sentimento attraverso la metafora. Anzitutto Cremonini ha capito che la canzone, come dice Guccini, «è il fatto di un momento, che serve per altri momenti». Unisce mondi lontani e impensabilmente vicini, come fanno la poesia e il simbolismo per analogia. Dunque una sensazione, un’idea, un periodo di vita o un elemento realista e persino di cronaca possono contenere un particolare evocativo perfettamente calzante con la doppia lettura di una storia o una canzone d’amore. È per questo che il concetto di confine lo si può raccontare tramite la fine di una storia d’amore o un viaggio che attraversa il freddo e l’oscurità per tornare a far pace con se stessi.
Così il percorso dalla prima canzone che dà il titolo al disco – e ne delinea plasticamente l’atmosfera con colori, luci e figure –, registra già il distacco e il “lasciar andare” nel secondo brano, Ora che non ho più te. Segue Aurore boreali, che rappresenta una prima ripartenza, con la voce di Elisa che duetta con quella del cantautore e sembra delineare “una carezza dopo un secolo”. Ragazze facili tratta a questo punto il tema importante del coraggio di amare; è prodotta in solitaria da Cremonini ed è forse il miglior pezzo del disco. Nel brano suona anche Mike Garson, storico pianista di David Bowie. Si arriva così fino a Dark room, uno sprofondare nella parte oscura dell’esistenza. È qui che si sente la necessità di una reale palingenesi, per trovare davvero se stessi nel ripiegamento verso quanto c’è di più familiare e personale: il brano San Luca. Uno dei più ispirati, con il duetto con Luca Carboni, centro nevralgico del lavoro che si chiude non casualmente con le parole: «Voglio stare da solo, / così magari mi trovo».
A questo brano, Cremonini fa seguire una nuova ripartenza, Un’alba rosa. È delicatissima la metafora che racconta di come le parole si insinuino senza «disturbare l’immensa bellezza dei tuoi desideri». È qui che il disco probabilmente assume l’apice dell’ispirazione musicale. L’autore riesce a descrivere il momento topico, dolce ma fatale, del passaggio tra la notte e il giorno – che è un altro modo d’intendere il confine –, nel movimento che fa l’armonia, con gusto classico che dà suggestione di antico e contemporaneo: come l’alba che si spalanca per compitare un nuovo inizio. L’alba è già domani, futuro a cui guardare con bramosia, che produce la «poesia nello streaming» del pezzo successivo (Streaming, appunto): una scultura che vien fuori dal marmo grezzo e un amore nuovo di zecca.
Qui il percorso si fa sicuro, passa per l’innamoramento che sfrutta l’idea significante del lampo giallo dei limoni e sfocia ne Il mio cuore è già tuo, che evoca la ragazza del futuro del disco precedente, «qualcuno che indichi la strada», che lì volava su una nuvola e qui non è «uguale a nessuna» e, come novella Beatrice, scende finalmente dalla luna. È come se Cremonini cantasse la coerenza della propria poetica, senza un briciolo di autocelebrazione ma per raccontare una storia che – sua e solo sua, con sguardo intimo sulla realtà – riesca a diventare di tutti, scendendo dal cielo alla terra, al qui e ora.
Il concetto del qui e ora, del fatto che un’idea tua e solo tua possa essere preziosa già solo perché all’altro a cui tieni, è il centro del brano successivo, Una poesia: l’amore vissuto con semplicità e trasporto, una celebrazione del quotidiano. È la semplicità riscontrata all’approdo in Alaska. Un brano dalla musica apparentemente usuale, eppure molto significante e, in certi passaggi armonici, per niente scontata, che immaginiamo cantata con gusto nel bel mezzo di un concerto con lo stadio pieno, a suggello di quel concetto di canzoni che funzionano benissimo nel percorso di questo disco e singolarmente.
Si arriva così all’ultima canzone, Acrobati. Non era possibile chiudere con tranquillità e linearità concettuale, perché la poetica musicale di Cremonini non è affatto lineare e scontata. Questa canzone è una riuscitissima opera a sé, che supera la zona di comfort di un finale tranquillizzante e fa emergere il relativismo e l’insicurezza. Come fa la vita.
Timbri, ritmi, produzione musicale rendono una narratività estremamente suggestiva, moderna e coinvolgente e ci parlano dell’inevitabile tensione al movimento continuo, al di là del limite, nonostante le momentanee acquisizioni che possono soddisfarci per un po’ di tempo: «Voglia di rischiare, / intramontabile per noi / che siamo acrobati / oltre il confine». Con il pianoforte a raccontare e cucire i piani e le scene di un amore, di tanti amori, forse di quella precisa storia ma più probabilmente dell’amore in generale, e del movimento di chi si perde in un percorso di ricerca: siamo niente, siamo tutto, siamo l’alternanza, la caduta e la rinascita. Un’ennesima linea di confine. Ché forse perdersi è il vero capolavoro che ci spinge a trovarci.
© riproduzione riservata