Agorà

La mostra a Milano. Il colore di Tiepolo sotto i cieli di Lombardia

Alessandro Beltrami venerdì 19 febbraio 2021

Particolare del Carro del Sole dalla galleria di Palazzo Clerici a Milano affrescata da Giambattista Tiepolo

Tiepolo è Venezia, senza dubbio. L’ultima gloria di una pittura di secoli giunta al suo approdo finale in una Citera di purissima luce. Per Adriano Mauriz la pennellata di Tiepolo è «quintessenza volatile, eterea, associata a un ardore di fiamma forgiatrice». Tiepolo dipinge i corpi come se fossero cieli e nuvole, figure gassose e cangianti che solo dopo modellate sono trattenute o dettagliate dalla vibrazione della linea.

Tiepolo è l’Europa: la volta dello scalone di Würzburg è l’ultimo sogno dell’antico regime prossimo al più brusco dei risvegli. Proseguirà ancora per un tratto sotto il sole di Madrid, dove l’ormai anziano pittore raccoglie l’eredità di Tiziano. In laguna sarebbe tornato solo il figlio Giandomenico, a constatare con lucidità la fine dell’incanto.

Ma Tiepolo, cosa meno scontata, è anche Milano. La città lombarda è anzi il vertice di una triangolazione che connette Venezia ed Europa. L’arte della città lagunare è un marchio riconosciuto in tutto il continente, ma il salto operativo non è così scontato. Serve prima mettersi alla prova fuori dai confini della Serenissima e Milano è la piazza ideale per mettersi in mostra.

È questa l’idea portante del progetto espositivo che le Gallerie d’Italia dedicano a Giambattista Tiepolo, a cura di Fernando Mazzocca e Alessandro Morandotti (catalogo Gallerie d’Italia / Skira). La mostra ripercorre integralmente la parabola di Tiepolo, dall’apprendistato agli ultimi esiti spagnoli, rimettendo a fuoco assunti critici e facendo tesoro degli studi più recenti, facendo di Milano lo snodo di molte questioni.

I rapporti con la città risalgono agli anni ‘20 del Settecento, quando Tiepolo collabora con la Società Palatina, per i cui torchi fornisce i disegni dei Rerum Italicarum Scriptores di Muratori. Nel frattempo tra Venezia e terraferma, palazzi, chiese e ville, consolida la sua fama di prodigio dell’immagine.

Giambattista Tiepolo, “La salita di Cristo al Calvario”, Sant’Alvise, Venezia - Cameraphoto Arte Venezia

Tiepolo a Milano arriva di persona negli anni ’30 dunque come principe di una intera scuola ma allo stesso tempo trova pubblico, committenza e colleghi capaci di apprezzare e discutere il suo lavoro. Un sistema culturalmente preparato ma anche così solido da non restare davvero sconvolto dall’opera tiepolesca: «I suoi interventi – osserva Morandotti in catalogo – i suoi ingaggi in città avvenuti in momenti diversi e certo in modo non occasionale rimangono exploit indimenticabili di una città aperta al confronto internazionale come non era più da tempo, almeno dagli anni gloriosi di Carlo V».

Tiepolo arriva in una Milano che ha la fortuna di essere asburgica. E la Lombardia austriaca, d’altra parte, è una delle patrie del rococò. Dopo un Seicento a tratti di alto livello ma anche rinserrato nei propri serbatoi territoriali, il Settecento – a partire dalle aperture di credito alla pittura forestiera di autori come Andrea Lanzani e il Legnanino – vede la compresenza di artisti locali (non di rado con esperienza internazionale) e figure che provengono da oltre Adda. Tra i primi ci sono pittori come Paolo Pagani – che per altro a Venezia si insedia per un paio di decenni e che Morandotti colloca tra le figure di riferimento del giovane Giambattista –, l’intelvese Carlo Innocenzo Carloni, che sulla scorta di una lunga tradizione familiare accede a grandi imprese decorative in Europa ben prima di Tiepolo, o ancora Cesare Ligari che a Venezia si forma nella classe di Giambattista Pittoni: lo stesso Pittoni che si colloca tra i principali esponenti del secondo gruppo, aperto cronologicamente da Sebastiano Ricci e tra i quali figura un grande come il dalmata Federico Bencovich ma dove non mancano personalità forse non originali ma di belle capacità come Mattia Bortoloni. Seppure impegnato su altro fronte, quello della veduta, attivo tra città e ducato è Bernardo Bellotto. Rapporti stretti, dunque, che seguono da vicino quelli commerciali e politici.

Sono tre i soggiorni milanesi di Tiepolo: nel 1730-31 per gli affreschi in Palazzo Archinto (distrutti dai bombardamenti alleati) e Palazzo Casati (oggi Dugnani); nel 1737 nella basilica di Sant’Ambrogio (questi pure in parte bombardati); nel 1740 per la galleria di Palazzo Clerici, il capolavoro di un secolo e piattaforma per le imprese d’Oltralpe, e verosimilmente Palazzo Gallarati Scotti. Milano si rivela ambiente ideale per Tiepolo perché gli si richiede di lavorare estensivamente ad affresco, la sua tecnica elettiva: da una parte si combinano velocità esecutiva e chiarità di tinte, dall’altra può dispiegarvi il suo talento narrativo e teatrale, perfettamente a suo agio nei registri dell’epica, del sentimento, del pastorale.

È il limite di ogni mostra su Tiepolo, l’impossibilità di portare un capitolo essenziale, se non il cuore, del suo lavoro. Palazzo Clerici è a breve distanza, ma alle Gallerie d’Italia la tecnologia viene parzialmente in soccorso attraverso un imponente sistema di videoproiezioni che riporta – ma con la bontà di non riprodurre come un facsimile “esperienziale” – gli affreschi dei palazzi milanesi (come anche le altre numerose tracce di Tiepolo in Lombardia). Ma soprattutto vengono proposti gli strappi otto- novecenteschi degli affreschi di Sant’Ambrogio e di Palazzo Gallarati Scotti, visibili al pubblico per la prima volta. Studi e bozzetti consentono quindi di completare la conoscenza dell’intero processo creativo. Tiepolo è infatti disegnatore instancabile: è attraverso il disegno, come scrive Morandotti, «che prendono forme le sue invenzioni spaziali, le sue figure in scorci sempre diversi e imprevedibili, le sue fantasiose interpretazioni iconografiche».

Da lì a poco il vento sarebbe cambiato e Milano si sarebbe precocemente scoperta incline al rigore neoclassicista. Tiepolo sarebbe stato però ormai lontano, nel suo lungo finale madrileno. Ma almeno fino alla metà del secolo la committenza avrebbe apprezzato ancora l’esuberanza celebrativa e delle fabulae tiepolesche immerse, che siano storia o mitologia, sacre o secolari è indifferente, in un Cinquecento neoveronesiano, il tempo di un Rinascimento già mitizzato. L’Arcadia aveva prolungato la fortuna del Tasso in tutte le arti. Tiepolo affonda l’incedere dei suoi eroi e la bellezza delle eroine in quella poetica, amplificandone a tratti la nota sentimentale e malinconica. I suoi affreschi avevano d’altronde anche, o soprattutto, il compito di conferire dignità e passato a una nobiltà di parvenu che aveva acquistato il titolo a suon di schei o di franchi (in questo Venezia e Milano pari erano). Un compito sociale di cui Tiepolo, grande professionista, era perfettamente conscio e che in un tempo ormai prossimo la nascente società industriale avrebbe rimosso alla radice.

Milano, Gallerie d’Italia
Tiepolo. Venezia, Milano, l’Europa
Fino al 2 maggio