INTERVISTA. Il ciak del mistero sul set di Tibhirine
«Sul set, abbiamo percepito tutti più volte di non essere davvero padroni di quanto stava accadendo, tanto le circostanze hanno influenzato la realizzazione del film». La pellicola in questione è l’ormai celebre Des hommes et des dieux, del francese Xavier Beauvois, distribuito in Italia con il titolo Uomini di Dio e già insignito del Gran premio della giuria a Cannes. Dietro il grande successo del film, c’è anche Henry Quinson, monaco cistercense francese che conobbe 4 dei monaci di Tibhirine assassinati. È lui ad aver in gran parte ispirato Beauvois e gli attori durante le riprese. Adesso, esce in Italia il «diario» di Quinson a partire dai documenti e dai ricordi del set: Degli uomini e degli dei. Il racconto del film «Uomini di Dio» ( Jaca Book, 240 pagine. euro 22). Autore di diverse opere ed ex trader di borsa, frère Henry aveva fra l’altro già raccontato il bivio preso dalla sua vita in "Dallo champagne ai Salmi. L’avventura di un banchiere di Wall Street diventato monaco di periferia" (San Paolo, 2009).Frère Henry, com’è nata l’idea del libro? «Non volevo scriverlo. Ma al Festival di Cannes, mi ha colpito la reazione del pubblico. Anche il distributore mi ha confermato di non aver mai visto nulla di simile. Mi sono reso conto che questo film faceva ormai parte della vita e della storia dei monaci di Tibhirine. E occorreva scrivere la storia di questo nuovo capitolo».Il messaggio del film è simile a quanto lei ha vissuto dietro la cinepresa?«Oggi ho l’impressione che i temi principali, tanto nel film quanto sullo stesso set, siano stati due. Innanzitutto, la fratellanza, in un periodo in cui molti tendono a credere alla tesi dello scontro delle civiltà. Accanto a ciò, una riflessione sulla questione della trascendenza. Dall’inizio alla fine, questo film sulla trascendenza ha scavalcato le intenzioni immediate di quanti l’hanno realizzato. Personalmente, desideravo da tempo un film su Tibhirine, ma avevo ricevuto il rifiuto di un noto produttore. Qualche giorno dopo, per un concorso di circostanze, mi è giunta un’altra proposta da un canale del tutto indipendente e imprevisto. Ciò mi ha molto turbato. Riguardo alla scena finale, ero totalmente opposto all’idea di mostrare il ritrovamento delle teste dei monaci. Poi, durante un giorno di riprese, è caduta la neve e si è alzata la bruma. È nata così l’idea del finale aperto del film».Per molti critici, questa scena finale offre come una chiave di lettura a tutto il film... «Questa foschia mi aveva subito ricordato, biblicamente, l’attesa dell’incontro nel libro dell’Esodo. Ma ciò rievoca pure la foschia che circonda Gesù nel giorno dell’Ascensione. E Paolo ci parla della fine dei tempi, quando saremo tutti trasportati fra nubi celesti. È un’immagine biblica molto connotata che mostra la presenza di Dio e che illustra bene pure la fine del testamento del priore di Tibhirine, Christian de Chergé, quando dice, riferendosi ai futuri attentatori: “E anche te, amico dell’ultimo minuto, che non sapevi quello che facevi (...) ci sia dato di ritrovarci, ladroni felici, in Paradiso, a Dio piacendo, nostro Padre, Padre di entrambi. Amen! Insh’Allah!”. Illustrare ciò era molto difficile e ci è giunta di colpo quest’immagine naturale non strettamente confessionale, la neve e la bruma. Avevamo la nostra risposta giunta dal cielo. O dal Cielo. Dipende dai punti di vista».Il film non racconta le settimane del sequestro, nella primavera del 1996. Una scelta prevista fin dall’inizio? «Quando abbiamo lavorato assieme al montaggio, Xavier Beauvois era tentato dal far ritornare l’elicottero alla fine del film. Gli ho suggerito fortemente di evitarlo, ricordandogli i punti poco chiari. Per sostenere una tesi precisa sulla morte, occorrevano elementi più solidi di quelli disponibili. Al contempo, nel film si mostra bene che non erano solo i miliziani jihadisti che erano interessati alla morte dei monaci. Anzi, è persino il contrario. Almeno una parte dell’esercito considerava insopportabile la loro opera. A titolo personale, condivido la tesi del falso sequestro».Come interpreta l’enorme successo? «C’è una parte di mistero. In Francia, hanno influito pure le pagine algerine della storia nazionale. Ma è solo un elemento. Personalmente, ritengo che esista un vero bisogno profondo di opere d’arte capaci d’introdurre alla dimensione spirituale. Ma la chiave, a mio avviso, resta quella di evitare un proselitismo intellettuale o moralistico. L’estetica e le opere d’arte possono esprimere la nostra tradizione spirituale comune senza troppi filtri, come mostra il fatto che le cattedrali siano ancor oggi i monumenti più visitati. E penso che il cinema, quando è ben utilizzato, possa edificare le nuove cattedrali di oggi. Cioè “luoghi” spirituali davvero alla portata di tutti, in fondo espressione di una fratellanza universale».