Agorà

INTERVISTA. Il ciak del mistero sul set di Tibhirine

Daniele Zappalà mercoledì 9 maggio 2012

«Sul set, abbiamo perce­pito tutti più volte di non essere davvero padroni di quanto stava acca­dendo, tanto le circostanze han­no influenzato la realizzazione del film». La pellicola in questio­ne è l’ormai celebre Des hommes et des dieux, del francese Xavier Beauvois, distribuito in Italia con il titolo Uomini di Dio e già insi­gnito del Gran premio della giu­ria a Cannes. Dietro il grande successo del film, c’è anche Henry Quinson, monaco cister­cense francese che conobbe 4 dei monaci di Tibhirine assassi­nati. È lui ad aver in gran parte i­spirato Beauvois e gli attori du­rante le riprese. Adesso, esce in I­talia il «diario» di Quinson a parti­re dai documenti e dai ricordi del set: Degli uomini e degli dei. Il rac­conto del film «Uomini di Dio» ( Jaca Book, 240 pagine. euro 22). Autore di diver­se opere ed ex trader di borsa, frère Henry aveva fra l’altro già raccontato il bivio preso dalla sua vita in "Dallo champagne ai Salmi. L’avventura di un ban­chiere di Wall Street diventato monaco di periferia" (San Paolo, 2009).Frère Henry, com’è nata l’idea del libro? «Non volevo scriverlo. Ma al Fe­stival di Cannes, mi ha colpito la reazione del pubblico. Anche il distributore mi ha confermato di non aver mai visto nulla di simi­le. Mi sono reso conto che que­sto film faceva ormai parte della vita e della storia dei monaci di Tibhirine. E occorreva scrivere la storia di questo nuovo capitolo».Il messaggio del film è simile a quanto lei ha vissuto dietro la cinepresa?«Oggi ho l’impressione che i te­mi principali, tanto nel film quanto sullo stesso set, siano stati due. Innanzitutto, la fratel­lanza, in un periodo in cui molti tendono a credere alla tesi dello scontro delle civiltà. Accanto a ciò, una riflessione sulla questio­ne della trascen­denza. Dall’ini­zio alla fine, que­sto film sulla tra­scendenza ha scavalcato le in­tenzioni imme­diate di quanti l’hanno realizza­to. Personalmen­te, desideravo da tempo un film su Tibhirine, ma a­vevo ricevuto il rifiuto di un noto produttore. Qualche giorno do­po, per un concorso di circostan­ze, mi è giunta un’altra proposta da un canale del tutto indipen­dente e imprevisto. Ciò mi ha molto turbato. Riguardo alla sce­na finale, ero totalmente oppo­sto all’idea di mostrare il ritrova­mento delle teste dei monaci. Poi, durante un giorno di riprese, è caduta la neve e si è alzata la bruma. È nata così l’idea del fi­nale aperto del film».Per molti critici, questa scena fi­nale offre come una chiave di lettura a tutto il film... «Questa foschia mi aveva subito ricordato, biblicamente, l’attesa dell’incontro nel libro dell’Eso­do. Ma ciò rievoca pure la fo­schia che circonda Gesù nel giorno dell’Ascensione. E Paolo ci parla della fine dei tempi, quando saremo tutti trasportati fra nubi celesti. È un’immagine biblica molto connotata che mo­stra la presenza di Dio e che illu­stra bene pure la fine del testa­mento del priore di Tibhirine, Christian de Chergé, quando di­ce, riferendosi ai futuri attenta­tori: “E anche te, amico dell’ulti­mo minuto, che non sapevi quello che facevi (...) ci sia dato di ritro­varci, ladroni feli­ci, in Paradiso, a Dio piacendo, no­stro Padre, Padre di entrambi. A­men! Insh’Allah!”. Illustrare ciò era molto difficile e ci è giunta di colpo quest’immagi­ne naturale non strettamente confessionale, la neve e la bru­ma. Avevamo la nostra risposta giunta dal cielo. O dal Cielo. Di­pende dai punti di vista».Il film non racconta le settima­ne del sequestro, nella primave­ra del 1996. Una scelta prevista fin dall’inizio? «Quando abbiamo lavorato as­sieme al montaggio, Xavier Beauvois era tentato dal far ritor­nare l’elicottero alla fine del film. Gli ho suggerito fortemente di e­vitarlo, ricordandogli i punti po­co chiari. Per sostenere una tesi precisa sulla morte, occorrevano elementi più solidi di quelli di­sponibili. Al contempo, nel film si mostra bene che non erano solo i miliziani jihadisti che era­no interessati alla morte dei mo­naci. Anzi, è persino il contrario. Almeno una parte dell’esercito considerava insopportabile la lo­ro opera. A titolo personale, con­divido la tesi del falso seque­stro».Come interpreta l’enorme suc­cesso? «C’è una parte di mistero. In Francia, hanno influito pure le pagine algerine della storia na­zionale. Ma è so­lo un elemento. Personalmente, ritengo che esi­sta un vero biso­gno profondo di opere d’arte ca­paci d’introdurre alla dimensione spirituale. Ma la chiave, a mio av­viso, resta quella di evitare un proselitismo intel­lettuale o moralistico. L’estetica e le opere d’arte possono espri­mere la nostra tradizione spiri­tuale comune senza troppi filtri, come mostra il fatto che le catte­drali siano ancor oggi i monu­menti più visitati. E penso che il cinema, quando è ben utilizzato, possa edificare le nuove catte­drali di oggi. Cioè “luoghi” spiri­tuali davvero alla portata di tutti, in fondo espressione di una fra­tellanza universale».