«Il sistema economico attuato dalla rivoluzione fascista in Italia assume un nome tradizionale, quello di corporativo, ma non ha di comune con l’ordinamento medievale e con i programmi dei riformatori cristiano-sociali dell’Ottocento molto più che il nome e, per quanto riguarda questi ultimi, l’idea di una ricostruzione organica della società e della collaborazione tra le classi». Con queste parole, nel 1942, Amintore Fanfani segna il vallo tra corporativismo cattolico e corporativismo fascista. Ciò che spinge il giovane professore di Storia economica nella facoltà di Scienze politiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore a registrare la sempre più incomponibile frattura tra le due concezioni corporative, non è soltanto la constatazione del fallimento – ormai evidente agli occhi stessi della stragrande maggioranza dei corporativisti del regime – di quell’assetto politico-economico delle corporazioni, in cui il fascismo ha investito una quota rilevante del proprio sforzo di innovazione ideologica e istituzionale. A convincere Fanfani di una tale incomponibilità è, semmai, soprattutto la questione, lasciata irrisolta dal regime corporativo, dei rapporti fra etica ed economia, fra etica e società, e anche fra etica e politica. Del rifiorire del corporativismo cattolico durante l’età fascista, Amintore Fanfani fu senza dubbio un esponente di spicco. Lo fu, in particolare, rispetto a quel pur variegato insieme di concezioni o propensioni corporative che nell’Università Cattolica trovarono la loro base e il loro principale alimento. Per molti aspetti, dunque, la traiettoria teorica del futuro leader democristiano assomma e sinteticamente rappresenta speranze, utopie e disillusioni del corporativismo cattolico di quegli anni. Così come, in essa, è possibile vedere e storicamente interpretare anche i cedimenti – più o meno obbligati, consapevoli, o meramente retorici – ad alcuni temi dominanti dell’ideologia corporativa fascista.Ma, proprio a partire dalla consapevolezza, manifestata nello scritto del 1942, della divaricazione tra corporativismo fascista e corporativismo cattolico, è anche agevole cogliere non solo gli elementi di originalità della concezione di Fanfani, ma anche quelli costitutivi della tradizione corporativa cattolica, che precedono di gran lunga le dottrine fasciste e che, pur con modalità e in una misura ancora tutte da studiare, resteranno vitali anche nel secondo dopoguerra. Gli elementi più originari della concezione di Fanfani sono già presenti con chiarezza nel denso saggio
Declino del capitalismo e significato del corporativismo, pubblicato nel 1934 sulle pagine del
Giornale degli economisti. Qui Fanfani riprende i risultati della sua definizione storico-concettuale di capitalismo, a cui era pervenuto in alcuni lavori precedenti e, in particolare, con
Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione del capitalismo. Il capitalismo è «un sistema sociale, e quindi comprensivo anche di un sistema economico, il cui fine è: garantire ad ogni individuo la libertà dello sforzo verso il massimo benessere economico, senza imporgli altri limiti che il rispetto della sicurezza e della proprietà altrui».Per Fanfani, le origini del sistema capitalistico vanno sì collocate nel momento dell’irrompere della Riforma protestante, ma, per essere comprese sino in fondo, sono necessariamente da inquadrare muovendo dalla fase storica in cui la
Respublica christiana viene lacerata. Se per Weber l’affermazione sociale della logica appropriativa capitalista ha come presupposto la diffusione dell’etica protestante, a giudizio di Fanfani la frantumazione della
Respublica christiana – e, dopo di essa, l’accantonamento di ogni idea di
humana civilitas, vagheggiata per esempio da Dante – è invece l’evento cruciale da cui è provocato l’allentarsi di quelle regole etiche che devono disciplinare e orientare le attività economiche e sociali. Al progressivo separarsi di etica ed economia, il capitalismo aveva così potuto autoproporsi con successo come un sistema guidato prevalentemente o soltanto dal tornaconto individuale e da un’azione economico-sociale non sottoposta ad altri limiti che non fossero la sicurezza e la proprietà altrui. Se Fanfani, in numerosi suoi scritti, continua a riconoscere allo Stato corporativo italiano il valore di un esperimento forse necessario dentro la lunga vicenda dello Stato moderno (e indispensabile, con ogni probabilità, all’interno della particolare costruzione risorgimentale-unitaria dello Stato italiano), la mancata soluzione del rapporto fra etica ed economia, così come tra etica e società ed etica e politica, gli fornisce la prova che la divaricazione fra i due corporativismi è di natura genuinamente «culturale». In ciò, nonostante le numerose ed evidenti differenze, le sue valutazioni tendono a convergere significativamente con l’atteggiamento di De Gasperi, il quale, in molti suoi articoli, nella forza della tradizione corporativa del cattolicesimo ritrovava i motivi di più serrata critica al corporativismo fascista. Nel 1934 Amintore Fanfani, illustrando a padre Gemelli il programma scientifico della
Rivista Internazionale di Scienze Sociali, aveva osservato che l’obiettivo principale verso cui dirigere gli sforzi era quello di «sistemare cattolicamente e corporativisticamente l’economia». Otto anni dopo, quella «sistemazione» gli apparve irrimediabilmente mancata. Ma per nulla fallito continuerà a sembrargli, nel periodo della conclusione della guerra e della ricostruzione, il programma di elaborare con nuove idee – e di realizzare, attraverso soprattutto il ruolo dello Stato e della sua politica istituzionale – il giusto (ed efficace) equilibrio fra istanze etiche e attività economica, fra regole e vita sociale.